domenica 29 marzo 2020
Coronavirus, dall'Albania Edi Rama invia 30 medici in Italia
"Lo so che a qualcuno qui in Albania sembrerà strano che trenta medici e infermieri della nostra piccola armata in tenuta bianca partano oggi per la linea del fuoco in Italia. So che trenta medici e infermieri non rovesceranno il rapporto tra la forza micidiale del nemico invisibile e le forze in tenuta bianca che lo stanno combattendo nella linea del fuoco da quella parte del mare. Ma so anche che anche laggiù è oramai casa nostra: da quando l’Italia e le nostre sorelle e i fratelli italiani ci hanno salvati, ospitati e adottati in casa loro quando l’Albania bruciava di dolori immensi. Noi stiamo combattendo lo stesso nemico invisibile; e le risorse umane e logistiche della nostra terra non sono illimitate. Ma oggi noi non possiamo tenere le forze di riserva in attesa che vengano chiamate, mentre in Italia (dove si stanno curando negli ospedali di guerra anche albanesi feriti del nemico) hanno un enorme bisogno di aiuto. È vero che tutti sono rinchiusi dentro le loro frontiere. E anche Paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri. Ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi, e neanche privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all’Italia che gli albanesi e l’Albania non abbandonano mai l’amico in difficoltà.
Questa è una guerra dove nessuno può vincere da solo. E voi, cari membri coraggiosi di questa missione per la vita, state partendo per una guerra che è anche la nostra. E l’Italia la deve vincere - e la vincerà questa guerra: anche per noi, e anche per l’Europa e il mondo intero".
Questo il messaggio che il primo ministro Edi Rama ha pronunciato, prima in albanese e poi anche in italiano, di fronte alla squadra di trenta medici e infermieri partita da Tirana per dare man forte alla sanità lombarda in difficoltà.
Un messaggio pregno di consapevolezza e di tanta dignità: Rama sa perfettamente che trenta operatori sanitari non sono che un piccolissimo contributo davanti ai numeri dell'emergenza mondiale, ancora tutta in escalation.
Per chi frequenta le chiese e ha qualche nozione dei vangeli, tuttavia, questo piccolo aiuto dovrebbe ricordare qualcosa: l'accostamento con la vedova povera nel Tempio, che offriva alla questua la sua unica moneta, è fin troppo naturale...
Senza farci cogliere da fin troppo facili sentimentalismi, ma pure senza sottovalutare l'apporto dell'Albania alla tragedia che viviamo ogni giorno a causa del coronavirus, è ovvio che questa mossa di Edi Rama ha un chiaro significato politico. Come tutto, del resto.
Il Paese delle Aquile, solo lo scorso ottobre 2019, ha infatti subìto una cocente delusione quando il vertice sull'allargamento dell'Unione Europea nei Balcani ha siglato un brusco stop alle aspirazioni di Albania e Macedonia, che agognavano l'ingresso nella UE.
La candidatura dell'Albania, in realtà, era già stata presa in esame e sembrava avere serie possibilità di poter entrare tra i 27... Fu la Francia, in sede di Consiglio Europeo, a porre un chiaro veto al riguardo. Vuoi per un miglioramento dei suoi rapporti con Mosca, vuoi per un (non dichiarato) timore che l'allargamento dei confini comunitari a Tirana avrebbe avuto delle conseguenze sulle rotte e sui cicli migratori.
In questo senso la mossa dell'Albania, che con umiltà riconosce di non essere un Paese ricco, ma che pure sottolinea come Paesi ricchissimi (e membri della stessa UE) si stiano voltando le spalle a vicenda, va letto come il tentativo di riannodare le fila di un percorso interrotto. Un voler rimarcare che quei valori di solidarietà e di fraternità internazionale sono molto sentiti da Rama e dal suo popolo.
Non si tratta probabilmente di una frecciatina a Macron; ma che il ruolo e le intenzioni del presidente francese debbano definirsi una buona volta è più che mai sotto gli occhi degli osservatori.
La Francia non può fare e disfare come più piace al suo governo, senza mantenere una linea di continuità tra i giorni. Ma è indubbio che il voto di Parigi pesi, e molto, tra i 27.
Sia che si parli di Albania, sia che si parli di eurobond.
Edi Rama ha fatto la sua mossa. Per tutto il resto, la palla passa (da tempo) dall'Eliseo.
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sabato 28 marzo 2020
Qualcuno era Europeista
L'attuale pandemia del coronavirus sta distruggendo, tra le altre cose, anche quel poco che c'era dell'Unione Europea. La Comunità, al momento della prova più dura, si sta dimostrando disunita come non mai.
Le dichiarazioni del premier olandese risuonano ancora nella mia testa: davvero non posso credere che abbia espresso un concetto tanto sconcertante.
Ho già avuto in passato motivo di temere che tutto fosse ormai lì lì per finire: l'ho temuto ai tempi del tracollo finanziario greco; l'ho temuto quando la Germania espelleva i profughi siriani; l'ho temuto durante la Brexit, evento questo che mi ha reso triste da piangere, quasi.
Victor Hugo una volta disse: "Non siamo più inglesi né francesi né tedeschi. Siamo europei. Non siamo più europei, siamo uomini. Siamo l’umanità. Non ci resta che abdicare dal più grande degli egoismi: la nostra patria".
Fa rabbia - fa tanta, tanta rabbia - rendersi conto che oggi, nell'ora più buia, al più grande degli egoismi noi continuiamo ad aggrapparci, come dei bambini timorosi, certi dei loro diritti e delle loro ragioni perché incapaci di osservare le cose con una prospettiva più lunga.
Malgrado tutto, però, io mi sento europeo. Voglio sentirmi europeo. Io sono europeo.
E questo canto del cigno per un' Europa Unita, che ho vomitato fuori in una notte, indegnamente, prendendo a prestito la base di un grandissimo brano di Giorgio Gaber, non avrei mai desiderato scriverlo.
Le dichiarazioni del premier olandese risuonano ancora nella mia testa: davvero non posso credere che abbia espresso un concetto tanto sconcertante.
Ho già avuto in passato motivo di temere che tutto fosse ormai lì lì per finire: l'ho temuto ai tempi del tracollo finanziario greco; l'ho temuto quando la Germania espelleva i profughi siriani; l'ho temuto durante la Brexit, evento questo che mi ha reso triste da piangere, quasi.
Victor Hugo una volta disse: "Non siamo più inglesi né francesi né tedeschi. Siamo europei. Non siamo più europei, siamo uomini. Siamo l’umanità. Non ci resta che abdicare dal più grande degli egoismi: la nostra patria".
Fa rabbia - fa tanta, tanta rabbia - rendersi conto che oggi, nell'ora più buia, al più grande degli egoismi noi continuiamo ad aggrapparci, come dei bambini timorosi, certi dei loro diritti e delle loro ragioni perché incapaci di osservare le cose con una prospettiva più lunga.
Malgrado tutto, però, io mi sento europeo. Voglio sentirmi europeo. Io sono europeo.
E questo canto del cigno per un' Europa Unita, che ho vomitato fuori in una notte, indegnamente, prendendo a prestito la base di un grandissimo brano di Giorgio Gaber, non avrei mai desiderato scriverlo.
Qualcuno era europeista perché era nato a Berlino.
Qualcuno era europeista perché l'Austria, l’Italia, la Francia, la
Germania... la Svizzera no.
Qualcuno era europeista perché vedeva l'euro come una promessa,
Bruxelles come una poesia, l’Europea unita come il paradiso dei popoli.
Qualcuno era europeista perché si sentiva solo.
Qualcuno era europeista perché aveva avuto un’educazione troppo
francofona. Ahi ahi ahi ahi
Qualcuno era europeista perché i bandi della regione lo erano,
quelli della provincia pure, il progetto Erasmus non ne parliamo: lo erano
tutti.
Qualcuno era europeista perché glielo avevano detto.
Qualcuno era europeista perché non gli avevano detto tutto.
Qualcuno era europeista perché prima, prima prima, era
liberal-socialista.
Qualcuno era europeista perché aveva capito che la Commissione
andava piano, ma lontano.
Qualcuno era europeista perché De Gasperi era una brava persona.
Qualcuno era europeista perché LePen non era una brava persona.
Qualcuno era europeista perché era ricco ma per il sociale.
Qualcuno era europeista perché ascoltava Barenboim e si commuoveva
alla nona di Beethoven.
Qualcuno era europeista perché era così affascinato dalle stelle che
aveva bisogno di riconoscersi in dodici di esse.
Qualcuno era europeista perché amava tanto gli spagnoli che voleva
mollare tutto e aprire un locale da loro.
Qualcuno era europeista perché non ne poteva più di vivere in
Italia.
Qualcuno era europeista perché trasferendosi dal Belgio in sù
otteneva l'aumento di stipendio.
Qualcuno era europeista perché gli Stati Uniti d'Europa oggi no,
domani è ancora presto, ma dopodomani sicuramente.
Qualcuno era europeista perché, la CECA, Schenghen il trattato di
Maastricht cazzo.
Qualcuno era europeista per fare rabbia a chi parlava ancora della
lira.
Qualcuno era europeista perché guardava solo La7.
Qualcuno era europeista per moda, qualcuno per principio, qualcuno
per frustrazione.
Qualcuno era europeista perché voleva far circolare tutto. Minchia.
Qualcuno era europeista perché non conosceva le guardie doganali, i
frontalieri e affini.
Qualcuno era europeista perché aveva scambiato il manifesto di
Ventotene per il vangelo secondo Spinelli.
Qualcuno era europeista perché era convinto di avere dietro di sé
l'intera NATO. Oh cazzo.
Qualcuno era europeista perché si sentiva più europeo degli altri.
Qualcuno era europeista perché credeva in una Banca Centrale
Europea.
Qualcuno era europeista malgrado ci fosse la Banca Centrale Europea.
Qualcuno era europeista perché non c'era niente di meglio.
Qualcuno era europeista perché abbiamo avuto il peggior parlamento
nazionale d'Europa.
Qualcuno era europeista perché il debito peggio che da noi, solo la
Grecia.
Qualcuno era europeista perché non ne poteva più di vent'anni di
governi berlusconiani, incapaci e mafiosi.
Qualcuno era europeista perché Platone, Federico di Svevia,
Cristoforo Colombo, Shakespeare, Victor Hugo, Gaudì eccetera eccetera eccetera
Qualcuno era europeista perché chi era per la storia era europeista.
Qualcuno era europeista perché non sopportava più quella piccola
cosa gretta che ci ostiniamo a chiamare nazionalismo.
Qualcuno credeva di essere europeista, e forse era qualcos'altro.
Qualcuno era europeista perché sognava una libertà diversa da quella
dei due blocchi.
Qualcuno era europeista perché credeva di poter essere libero e felice,
solo se avevano il diritto di esserlo anche gli altri.
Qualcuno era europeista perché aveva bisogno di una spinta verso
qualcosa di nuovo. Perché sentiva la necessità di una diversità comune.
Forse era solo un ideale, un sogno, era solo uno slancio, un
desiderio di cambiare radicalmente il modo di pensare, la convinzione che
insieme si sarebbe cambiato per sempre un modo di vivere.
Sì: qualcuno era europeista perché con accanto queste diversità si
poteva essere molto più di sé stessi. Si diventava tante storie in una.
Da una parte la personale radice di ciascuno, fatta di panorami, di
ricordi, di odori... e dall'altra, il senso di appartenenza a un unico seme, pronto
finalmente a scostare le ultime zolle di terra, per presentare il suo germoglio
alla luce...
Sì, sono molti i rimpianti. Forse molti di noi hanno semplicemente
preso i frutti della vigna... senza avere mai avuto alcuna intenzione di
coltivarla.
E ora? Ora ci sente soli come non mai. Da una parte ciascuno,
rinchiuso in sé stesso, che attraversa rigidamente la limitatezza del proprio
recinto quotidiano; e dall'altra, quel germoglio: che non ha più nemmeno
l'intenzione di fiorire, perché ormai il seme si è rinsecchito.
Ventisette
miserie per un solo guscio vuoto.
lunedì 23 marzo 2020
Disinformazione e covid19: come la politica entra nel virus
Le fake news rendono più forte
il coronavirus (e la Russia) ... e sempre più debole l’Europa
"dezinformatzija"
(дезинформация): tattica russa risalente al 1923. La parola disinformazione fu usata dal KGB per
indicare «la manipolazione del sistema di intelligence di una nazione
attraverso la somministrazione di dati credibili ma fuorvianti».
… Perché ho scritto la definizione di disinformazione nella
strategia adoperata storicamente dal KGB? Perché ci sono alcune cose che non mi
tornano… e non mi riferisco tanto alla crisi planetaria, che è evidente, quanto
a diverse distorsioni che vedo nel mondo dell’informazione - tanto quella
ufficiale quanto quella sul web, a proposito del caro amico CoronaVirus.
La paura che viviamo oggi a causa di questa pandemia è purtroppo rafforzata
da una serie di notizie false e di appelli pieni d’odio che un po’ tutti, ogni
giorno, finiamo per trovare sugli schermi dei nostri cellulari.
Perché il mio ragionamento sia chiaro a tutti, devo riassumere la
storia e il decorso di certe fake-news create a regola d’arte che negli ultimi
anni hanno modificato la storia globale. Noi oggi sappiamo, in maniera indiscutibile,
che una società russa ha inficiato l’ultima campagna presidenziale americana.
Lo sappiamo, nel senso che abbiamo le prove che una manipolazione psicologica
su larga scala c’è stata: attraverso la creazione di migliaia di profili falsi
sui social network che hanno diffuso notizie capziose e fuorvianti, con diverse
tecniche (proprie, appunto, dei meccanismi della guerra psicologica e
dell’intelligence).
Mi fermo un istante per ricordare quali sono i bersagli tipici di
ogni populismo: i media
mainstream, i politici, i lobbisti, i giudici, i burocrati e tutto ciò che è
establishment in generale.
Ricordato questo aim, stampato nella nostra testa come un segnale di
allerta, possiamo proseguire.
Nella campagna pro Trump di tale società russa, solo su Facebook sono
stati attivamente impiegati 470
account che hanno prodotto un totale di 80'000 post, raggiungendo almeno 29
milioni di profili in maniera diretta - ma si stima che gli utenti raggiunti in
assoluto siano stati circa 126 milioni, a fronte dei 140 milioni di elettori
nel sistema americano.
Ovvio, molta di quella roba era palesemente spazzatura e tanta gente
sicuramente non gli ha dato peso. Ma il punto è che sono stati pochi, pochissimi
anzi, i post che erano diretti
endorsement per Trump. Chi ha studiato il tema sa che su Twitter, con un numero
maggiore di profili controllati e di bot che ne hanno fatto girare i tweet,
sono stati messi in circolazione quasi un milione e mezzo di contenuti… ma solo
per l’8% erano tweet politici.
Questo è un dato importante.
La vera disinformazione
lavora solo per l’8% direttamente al suo obiettivo. Il restante 92% del lavoro si
focalizza su una strategia diversa. Quale? Quella di attaccare media, politici, lobbisti, giudici,
burocrati e tutto ciò che è establishment… in maniera molto, molto, molto indiretta.
Prendiamo come esempio la pagina fb “Figli di Putin”. È una pagina satirica, spesso divertente: la seguo anche io. Non ho nessun elemento per affermare che sia una pagina nata appositamente per plasmare le opinioni degli utenti in maniera indiretta. Ma che svolga una accurata promozione dell’attività del Presidente russo è indiscutibile; e pur sotto la maschera della satira, tale promozione avviene con gli stessi meccanismi della disinformazione.
Figli di Putin, Pastorizia Never Dies, Degrado Post Sovietico e
quante altre ve ne vengano in mente… sono pagine i cui post, al 92% (?) non
sono politici. Utilizzando l’ironia fanno leva su una serie di “anti-valori”
che per una serie diversa di ragioni, spesso solo per gioco, ci sentiamo di
poter condividere o di apprezzare lateralmente. Insomma: il burino di paese con
la tuta dell’adidas strafatto ci fa ridere… così come ci fa ridere l’impresa di
costruzione di zio Pino o de mi cuggino, che non hanno le scale e si inventano
sistemi pericolosi per ovviare alle loro necessità… il contadino che si fa il
bagno in un bidone… la scorta di birra Finkbrau, perché siamo stati tutti
ragazzi con pochi soldi in tasca… la mega-braciolata riciclando in maniera
povera ma intelligente rottami d’auto o attrezzi di campagna…: questo intendo
per apprezzare lateralmente. Sono contenuti che ci fanno sorridere. Solo in
maniera minore, all’8%, ci si propongono post più diretti. Uno contro Renzi “presidente
che non è stato mai eletto”, uno dove Putin fa il gentiluomo porgendo il
braccio a un’anziana Regina, uno di Di Maio che ripetendo uno stesso concetto
finisce per contraddirsi, uno di Putin pronto a risolvere una crisi
internazionale… insomma, avete capito quello che voglio dire.
Qual è la connessione tra gli obiettivi della disinformazione e quei
meme molto stupidi ma apparentemente innocui? La connessione c’è. Se ci
pensate, molti di quei meme usano locuzioni come “Ma tu non sei studiato,
quindi…”; “Quando ti dicono di fare, ma…”; e via discorrendo. Questo modello di
comunicazione finisce per creare nella mente di chi legge una dissonanza che, in
un certa misura, sdogana i bassi istinti, l’ignoranza, la faciloneria e
l’incompetenza. Così facendo, ci fa sentire tutti più vicini, più semplici, più
veri. E, alla lunga, tale strategia comunicativa ha dato anche a quelle pagine
un ruolo di “media company”, in un certo senso. Perché, tra una cazzata e
l’altra, diffondono delle notizie: Putin che risolve una crisi internazionale
solo con la sua determinazione, in
confronto ai governanti europei che incespicano con le loro leggi, è una
notizia. E noi, lettori di Figli di Putin, di Degrado e di Pastorizia,
piacevolmente narcotizzati da tutta quella serie di post divertenti che ci sono
sempre piaciuti, in una certa misura finiamo per dare credito a quella notizia.
Ci convinciamo che abbiano un certo credito, le frasi che troviamo su quei
meme, e per tante ragioni!
Poiché ci divertono, ci abituiamo a esse; e poiché ci siamo abituati,
finiamo per fidarci di ciò che dicono. È in questo modo che il messaggio
politico, quello che riguarda solo l’8% di quei post, piano piano ci avvolge,
ci permea, ci scende in profondità senza che ce ne accorgiamo: e noi finiamo
per condividerlo. Per condividerlo; o quantomeno per ammettere che abbia delle
ragioni.
È da questo genere di prossimità con contenuti inquinati che poi
nascono le fake news, diciamo così, “classiche”: quelle dei profili che
diffondono notizie false partendo da dati reali, spesso senza una reale
consapevolezza da parte dell’utente che le ha prodotte.
È piuttosto indicativo il caso
di un cittadino americano di nome Eric Tucker. Tucker, in piena campagna presidenziale, ha creato da solo il
collegamento mentale tra un certo numero di bus turistici nella sua zona (da
lui ritenuto insolito) e una manifestazione anti-Trump. Cosa ha fatto, dunque?
Ha scritto un tweet affermando che i pullman visti vicino casa sua erano pieni
di manifestanti pagati (da Hillary, che in questo modo creava ad hoc degli
eventi contro il suo rivale). E in effetti i “manifestanti” erano stati
affittati… ma da Tableau, una società di software, per riempire una hall in
occasione di un suo congresso. Sarebbe
bastato andare a chiedere a uno degli autisti dei bus cosa ci facessero lì. Ma
il germe della disinformazione, dell’odio per l’establishment, era ormai tanto
radicato da non far nemmeno prendere in considerazione al povero Tucker la
possibilità di porsi una domanda così banale.
Perché ho fatto questo pippone? Perché, dopo Trump, si ha avuto
negli anni il forte dubbio, poi diventato sospetto fondato da parte
dell’autorità giudiziaria, che fondi russi abbiano finanziato la Lega in
Italia. Sembra lontana anni luce, ma l’indagine sui 65 milioni di dollari grattati
via da una fornitura di petrolio e sulla mediazione di Savoini è piuttosto
recente. Se uno pensa al gravissimo dissesto finanziario della Lega Nord è
quantomeno curioso il dispendio di energie (e di liquidità) passato negli anni
attraverso la macchina elettorale dei social: la famosa Bestia che Salvini, nei
suoi mesi da vicepremier, ha peraltro accollato alle casse del suo ministero
come spesa di cancelleria costa dai 44 agli 84mila euro al mese (a proposito:
da quando non sta più al Viminale, le spese le paga la tesoreria del gruppo a
Palazzo Madama. Ancora soldi pubblici, tanto per dire).
Visto e considerato il caso americano e il caso italiano; e visto e
considerato soprattutto che tutti i partiti sovranisti in Europa stanno
conoscendo una renaissence impensabile fino a pochi anni fa; è legittimo
domandarsi se dietro a tanti contenuti che passano ogni giorno per gli schermi
dei nostri cellulari non ci sia la lunga mano russa.
Appena una settimana fa un rapporto del Servizio europeo per
l'azione esterna (European External Action Service - EEAS), che per chi non
lo sapesse è una sorta di mega-ministero degli affari esteri europeo, dotato di
suoi analisti e di una sua intelligence, segnalava alle istituzioni una
casistica di almeno 80 (ottanta!) contenuti diffusi nel web e nei social dal
Cremlino per creare disinformazione legata al Coronavirus, aggravando la crisi
fiduciaria dei cittadini europei nei mercati e nelle istituzioni occidentali.
Tale rapporto avrebbe dovuto essere riservato… ma, come spesso accade, un
giornale è riuscito a pubblicarlo. Nel caso specifico, il Financial Times (una fonte che
credo possiamo considerare tutti attendibile).
Allora, ecco: di fronte a un video come quello
del medico che tenta di smontare i dati relativi ai decessi per covid19, io un
paio di domande me le faccio.
Il video parte da una considerazione razionale
e in una certa misura ragionevole: se consideriamo il numero dei morti per
coronavirus attendendoci ai dati dei soli ammalati gravi (e questo è abbastanza
vero, specie per le regioni del nord) avremo un dato percentuale di decessi
molto alto che spaventerà qualsiasi lettore. Ma che non corrisponde alla
verità, poiché non c’è mai stata una mappatura completa della diffusione del
virus, casa per casa, nemmeno in zone limitate.
Ciò che non mi convince, e che arriva tra il
secondo e il terzo minuto, è l’attacco sperticato ai politici e alle
istituzioni. Che poi, ai politici e alle istituzioni: ai politici e alle
istituzioni non di centro-destra. Malgrado dica “ce l’ho con i politici di
tutte le fasce” nomina esplicitamente Zingaretti, che ha accorpato il Forlanini
al San Camillo (cosa diversa dal tanto spesso letto in giro “Zingaretti je sta
bene che c’ha er coronavirus perché ha chiuso il Forlanini”); ma mai i governi
lombardi che da almeno vent’anni (Formigoni 1, 2, 3, Maroni, Fontana)
promuovono e investono nella sanità privata a scapito di quella pubblica.
Il video di quel medico è stato per me illuminante,
perché come tono, come tipo di comunicazione, non ho potuto non accostarlo alla
lettera aperta pubblicata sabato dal cosiddetto “Comandante Alfa”, uno dei
primi responsabili del GIS. Grazie ai poteri infiniti della rete, non poteva
diventare ulteriormente un mito il primo capo delle “teste di cuoio” dell’arma.
Se poi hai una pagina Facebook piena di foto tue con il mefisto nero sempre in
testa e di frasi che richiamano all’orgoglio e alla resistenza in battaglia,
beh, chiaramente un tuo pubblico te lo crei. Sono rimasto sconcertato dalla
lettera delirante di questo ex carabiniere che, “non potendo più tacere”,
piange i tanti morti dell’Alta Italia, correda il tutto con le foto strazianti
dei camion militari che tutti sappiamo carichi di bare e… e poi che fa? Lancia un appello, si direbbe; ma è quasi
un’incitazione alla rivolta, all’eversione.
“I decreti non servono più a nulla, sono confusi, servono a
indebolirci e non a rinforzarci”; se la prende con i politici (ma solo quelli vicini a
centri sociali e sardine); con l’Europa (ovviamente) e anche con la Chiesa (ma
in maniera più morbida, da buon cristiano).
Che cosa ho voluto dimostrare? Forse niente. Forse tutto. Stiamo attraversando una pagina di Storia. La situazione è drammatica, dal punto di vista umano. Stiamo pagando in termini di vite un prezzo altissimo; e quando la crisi sanitaria si sarà allontanata, a questo prezzo seguirà un contraccolpo terribile sulla nostra economia e dunque sulle nostre vite. E non c’è niente che noi possiamo fare. Proprio niente. Vale poco disperarci fin da subito, così come il tentare conti in tasche che sono irrimediabilmente già bucate. Non ho parole di speranza da infondere, perché temo che non ce ne siano. Tuttavia c’è qualcosa che ancora ci è dato di difendere, ed è un nostro preciso dovere il difenderlo: l’ideale europeo.
Quell’Europa spesso così lontana da toccare, e che nei momenti più avvilenti non abbiamo sperimentato come speravamo. Quell’Europa che forse, alle volte, ci ha deluso. L’Europa unita: si tratta di un sogno “così delicato che solo a pensarlo si potrebbe spezzare”. Ma, con tutte le sue pecche e i suoi difetti, l'ideale europeo è stato ed è ancora un faro di civiltà e di speranza per tutti i popoli liberi della Terra. E in nome di questo ideale, di questo sogno, di questo faro, io rifiuto categoricamente di lasciare mano libera a coloro che, con azioni e discorsi serpentini, tentano di distrarci, di metterci gli uni contro gli altri, di dubitare della nostra storia e del nostro futuro comune. Oltre all’attacco del virus ce ne è un altro, ugualmente invisibile e insidioso: ed è l’attacco di chi fa di tutto per istillarci il dubbio, di chi con astuzia ci vorrebbe convincere che siamo soli, che non abbiamo scelta se non di affidarci a nuovi amici, abbandonando quelli vecchi. Nei giorni scellerati della quarantena, la nostra lotta deve essere soprattutto mentale. Se il rischio del virus si può ridurre con le accortezze e con il buonsenso, solamente non cedere alla paura e alla paranoia può salvarci dalla tentazione di cadere tra le braccia di chi, con false lusinghe, oggi si professa nostro amico. Non è solo una convinzione politica, che potreste dirmi essere opinabile: non cadere nella macchina propagandistica russa significa non declinare la precisa responsabilità culturale e storica che per nascita ognuno di noi ha. Perché, se il principio della coesione che da oltre settant’anni, come europei, abbiamo scelto, dovesse cadere, ne prevarrebbe un altro, fatale per ogni ordine civile nel mondo.
È a questo proposito che oggi mi sono messo a scrivere. Io non credo che sia un caso se le mascherine e gli altri materiali sanitari provenienti dalla Cina sono stati fermati alle dogane della Repubblica Ceca e della Polonia. Non credo sia un caso che, immediatamente dopo questo scandalo internazionale, dopo questa vera e propria ruberia consumata sotto gli occhi inermi di tutta una Comunità Europea egoista e impotente, ogni Stato indaffarato con la propria emergenza, proprio Putin si sia fatto avanti tendendoci una mano. Possiamo accettare il suo aiuto; non dico di no. Ma solo con razionalità. Non dobbiamo farci illusioni su cosa stia succedendo nella nostra casa, già da tanti anni. Appelli e dichiarazioni come quelle di quel medico, o come quelle del comandante Alfa, non sono che il prodotto di un bieco populismo che spera di ridurre le complessità del mondo moderno a un messaggio di ribellionismo e di odio, che non hanno niente a che fare con i nostri veri valori. Quei valori di unità, di solidarietà e di armonia che sono riversi nel cerchio di dodici stelle su fondo blu, nei quali varrà sempre la pena credere, malgrado i tempi e le indiscutibili avversità che attraverseremo.
Concludo questo ragionamento con parole che non sono mie. Un anno fa, di questi tempi trovavo in cantina il memoriale di guerra di mio nonno. Tra quelle pagine, ho letto la testimonianza dei soldati italiani arrestati dai tedeschi dopo l’8 settembre e tradotti nei campi di concentramento in Polonia. Sebbene avessero offerto il ritorno in Patria a quanti di loro avrebbero accettato di servire la repubblichina di Salò, quasi tutti gli italiani preferirono la prigionia alla collaborazione.
“In questo rifiuto è racchiuso il contributo da essi offerto alla guerra (...)
nei campi di deportazione quegli uomini attuarono una Resistenza difficile: la
resistenza al freddo, alla fame e al terrore. Restò loro la vittoria su sé
stessi (...) il miglior modo per conservare intatta nelle condizioni più
avvilenti la propria dignità umana”.
Dalla comodità delle nostre case, il compito che ci spetta non è troppo
diverso. Calmi, saldi e uniti in questo momento di tribolazione, con troppi
giorni bui ancora davanti, tutto quello che possiamo fare è sondare la rete resistendo alle menzogne.
Perdere del tempo a smascherare certe comode menzogne, a fare fact-checking, a diffondere la verità, deve essere oggi, e tanto più oggi, nostra responsabilità morale. Non solo e non tanto perché siamo nati in un’Europa libera e pacifica. Ma perché apparteniamo alla razza umana. Perché viviamo in quella cosa, a volte imperfetta, che si chiama civiltà. E se voltiamo la testa dall’altra parte, se pensiamo che gli attacchi alla civiltà non ci riguardino, se pensiamo che non stia a noi difendere chi ci è vicino dal virus della disinformazione... allora abbiamo un problema molto più grave del covid19. Allora siamo già stati contagiati dalla più pericolosa delle pandemie.
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