mercoledì 22 febbraio 2017

La politica matrimoniale - racconto breve sulla scissione del pd

il testo seguente, di fantasia, è proprietà intellettuale esclusiva del sottoscritto Michele G. Picozzi, che ne è l'unico autore.

Questo racconto satirico è per forza di cose ispirato alla scissione attualmente in atto nel Partito Democratico.
Ogni riferimento a fatti o persone reali, tuttavia, è da ritenersi casuale e quindi non voluto.

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La Politica Matrimoniale 
- racconto breve -
Dedicato ai compagni; quelli "veri"... 


Massimo si svegliò parecchio urtato quella mattina. Gli atteggiamenti di sua moglie negli ultimi giorni lo stavano snervando.
Non andava bene, non andava affatto bene che lui tornasse dal lavoro a sera inoltrata e che trovasse ad aspettarlo solo un frigo vuoto.
Si sentiva trascurato. Trascurato e offeso. Trascurato, offeso e ferito.
Era arrivato il momento di sputare tutto il veleno che aveva accumulato nelle ultime settimane, di mettere le carte in tavola.
Quello che avrebbe dovuto essere sarebbe stato.
Cercò con i piedi le pantofole a occhi chiusi, si stiracchiò e, alzatosi, si diresse verso la cucina.
Sua moglie stava finendo di fare colazione. Aveva preparato il caffè. Con la moka piccola. Massimo non dubitava che ormai fosse già maledettamente vuota.
- Ben svegliato - lo salutò Doriana.
- Buongiorno - rispose laconico lui.
Prese in mano la moka e la scutugliò appena. Non ebbe bisogno di avvicinare il beccuccio alla tazzina per scoprire, come d'altronde sospettava, che sì, era già stata svuotata.
Non riuscì a trattenere un verso istintivo di insofferenza.
- E questo che cos'era? - gli domandò Doriana con un filo nel tono della voce intessuto per metà di disappunto e per metà di curiosità.
Massimo restò in silenzio e prese a fissare il piccolo televisore all'angolo del cucinino, acceso, che passava il tg della mattina.
- Allora? Che cosa hai? - insistette Doriana.
Massimo continuava a fissare le immagini che scorrevano sullo schermo. Il primo ministro, con quella sua aria tra il flemmatico e lo scocciato, ribadiva gli stessi concetti che aveva in bocca da settimane: l'opportunità politica, il momento storico, la volta buona per dare una scossa alla situazione internazionale...
- Insomma? - chiese sua moglie per la terza volta.
Massimo a quel punto scosse la testa.
- Niente. Pensavo al presidente del consiglio.
Lei lo guardò curiosa, presa alla sprovvista.
- Al presidente del consiglio? È per colpa sua che digrigni i denti già di prima mattina?
- Proprio così. Perché, c'è qualcosa di strano?
- No, no. Figurati.
Massimo tornò a guardare il televisore con aria un pochino più convinta.
- Già - ripeté, come a convincersi della scusa che aveva appena partorito:
- È proprio uno stronzo.

***

- No, signora Speranza, non dico che non deve annaffiare gli oleandri sulla tangenziale. Solo non capisco perché deve farlo dal terrazzo di casa sua.
Domandò Massimo alla malefica vecchina durante la riunione di condominio.
- Mi scusi, sa, ma io ho una certa età. Che cosa pretende, che vada ad annaffiarli personalmente uno ad uno, scendendo in strada? Mi ci vorrebbero... quante bottiglie di plastica? Lo sa lei quanto è distante la fontanella più vicina?
- Signora, io non metto in dubbio le sue difficoltà e non sto suggerendo questo. Ma questa sua "abitudine" potrebbe diventare pericolosa, se ne rende conto?
- Questo non lo credo proprio, giovanotto. Io annaffio gli oleandri solo dopo le ventidue, quando la strada è chiusa al traffico. Non vedo come potrebbe rappresentare un pericolo per qualcuno.
- Va bene; diciamo allora che potrebbe diventare "fastidioso" per chi passeggia davanti quel muro a piedi. Per me che torno sempre dal lavoro a quell'ora, che spesso e volentieri mi scordo della sua premura nei confronti degli oleandri e che, pertanto, mi ritrovo tante volte a subire una doccia non richiesta.
- Giovanotto, se lei non sta attento non è un mio problema. Il regolamento comunale dispone che si dia acqua alle piante solo dopo una certa ora; e io questa regola la rispetto in pieno. Se pure mi limitassi a bagnare solo i fiori del mio terrazzo lei, distratto com'è, si beccherebbe comunque tutto ciò che scola comunque dai sottovasi. Con la differenza che la questione non esisterebbe. Quelle povere piante hanno bisogno di qualcuno che si occupi di loro e io non ho intenzione di abbandonarle a sé stesse solo perché lei non fa attenzione a dove mette i piedi.
Massimo abbandonò la riunione con i nervi a fior di pelle. Sua moglie lo seguì dimessa, con il viso rosso dalla vergogna.
- Massimo, che diamine! Ma dovevi proprio prendertela con la signora Speranza?
- Scusa, ma perché no? È una maleducata egoista. Per quale motivo dovrei sottostare al suo egoismo e alla sua maleducazione?
- Per quieto vivere, Massimo. Per quieto vivere.
- Per quieto vivere? Per quieto vivere la prossima volta chiamo i vigili e le faccio fare una multa grossa così!
- Illuso... - gli rise in faccia sua moglie: - Ti sei dimenticato che quella signora è la mamma del vicecomandante della municipale? Non daranno mai retta a te per mettersi contro suo figlio!
- Ah, è così?
Il giorno seguente Massimo si recò alla sede locale del partito di maggioranza del suo municipio. Mancava meno di un anno alle elezioni amministrative e l'episodio della sera precedente lo aveva riempito di frustrazione, caricandolo di quella rabbia che lo stava spingendo a candidarsi come assessore alle strade.
In fondo era un professionista molto stimato e relativamente conosciuto. Il funzionario del partito fu ben lieto di tesserare un cittadino esemplare come lui.
Massimo tirò fuori il meglio di sé e l'anno successivo, quando il partito del quale ormai faceva parte vinse come, era prevedibile, le amministrative, lui fu nominato amministratore delle strade.
La signora Speranza, per tutto quel tempo, aveva naturalmente continuato ad annaffiare gli oleandri al bordo della tangenziale con la canna da irrigazione dal terrazzo di casa sua.
Massimo, con la sua nuova autorità di assessore, le mandò i vigili a casa.
La signora Speranza dovette pagare la sua bella multa.
- Come mai sei così di buon umore, caro? - domandò Doriana a suo marito.
- Perché alla fine ho vinto io!
-  E cosa ti riferisci?
Massimo e rispose quasi sdegnoso:
- Alla signora Speranza, ovviamente. Non hai sentito della multa che ha ricevuto?
- Sì, ne parlava stamattina con il vedovo del terzo piano. Perché? Tu che cosa c'entri?
- Che cosa c'entro? Glieli ho mandati io i vigili!
Sua moglie lo osservava interrogativa.
- Così la smetterà di allagare la strada dal terrazzo di casa sua! Si sentiva impunita, al di sopra della legge e dei regolamenti di buon vicinato... e io le ho dimostrato che aveva torto!
Doriana alzò le spalle con indifferenza:
- Se la cosa ti fa stare meglio - disse andandosene a fare una doccia.

***

- Doriana, davvero, non riesco più a comprendere la tua ostinazione.
- Hai poco da capire e ancora meno da arrabbiarti: io non mi sento pronta.
- Non ti senti pronta. Non ti senti pronta a diventare madre a 37 anni.
- Hai riassunto perfettamente. Vuol dire che mi hai capita.
- No che non ho capito. Non ti capisco.
Marito e moglie restarono in silenzio, senza voltare il capo ma pure senza guardarsi, con lo sguardo assente, Massimo proiettato alla ricerca di una risposta, Doriana nell'indifferenza noiosa di chi aspetta che un certo momento passi via e basta.
- Non ti senti pronta per avere un bambino o non vuoi averlo?
- Fa differenza?
- Sì, Doriana. Per me fa differenza.
- Allora scegli tu.
- Scegli tu che cosa?
- Scegli tu quale delle due. Io per ora non voglio pensarci.
Massimo uscì di casa senza salutare.
Il lavoro in comune era diventato noioso. Si era stancato, dopo quattro anni, di svolgere l'ordinaria amministrazione senza poter dire mai la sua. Anzi, a essere onesti la sua poteva dirla. Ma contava quanto il due di coppe quando regna bastoni.
Il sindaco pareva lontano, disinteressato alle idee personali di uno dei suoi assessori più virtuosi. Sapeva che Massimo svolgeva bene il suo lavoro' e tanto gli bastava. Perché risolvere tutti i problemi del Comune, a suo modo di vedere? Perché mai? Su che cosa avrebbe puntato, alle prossime amministrative, se per un caso sfortunoso si fosse davvero impegnato a risolvere tutti i problemi della città? Che cosa avrebbe potuto più promettere in campagna elettorale?
Massimo non era uno stupido: aveva compreso da tempo le regole del gioco.
Semplicemente, da quella mattina quelle regole non gli andarono più a genio.
Quella mattina si ammalò di telefonate: contattò colleghi stufi e colleghi ambiziosi, professionisti affermati come era stato lui fino a qualche anno prima, qualche amico di comprovata fiducia.
Quindi, a ridosso delle prime candidature utili, iscrisse il suo nome. Era in corsa per diventare sindaco. Con il partito che aveva fondato idealmente la mattina che aveva discusso con Doriana.
Inaspettatamente, Massimo vinse le elezioni.

***

Massimo venne eletto sindaco per due mandati consecutivi.
Sul finire del suo decennale incarico aveva bene di che essere soddisfatto. Con le sue sole forze era riuscito a creare un soggetto politico nuovo, vitale e competente. Aveva governato con cognizione e prudenza, compensando la relativa inesperienza iniziale rispetto a chi il politico di professione lo aveva fatto sin da giovanissimo.
Era arrivato il momento di cedere il passo, dopo dieci anni di pubblico incarico.
All'interno del suo partito erano cresciuti dei giovani interessanti e uno in particolare, Gianmatteo, si faceva avanti, ancora tra le righe, per succedergli come prossimo candidato sindaco. Era uno tosto, Gianmatteo: tosto, furbo e dinamico. Fin troppo dinamico, a suo modo di vedere. Di lui sapeva che intratteneva relazioni con i suoi vecchi compagni di partito, del partito con il quale era iniziata la sua avventura come semplice assessore. Dopo un quindicennio nell'ambiente Massimo aveva imparato che le relazioni personali, per chi è del mestiere, non possono non riguardare anche quanto si porta nel lavoro.
Non era che Gianmatteo gli dispiacesse proprio, ma le sue frequentazioni no che non gli andavano giù. Avrebbe preferito, ecco, che come suo delfino venisse indicato un qualche altro, magari più dimesso, più ordinato, meno "esplosivo". Qualcuno di più serio, ecco.
Ci rifletteva spesso. Di tanto in tanto si rispondeva che forse si trattava di una sua fissazione, probabilmente dovuta all'età: oramai era arrivato ai cinquanta anni. Doriana ne aveva 47. Non avevano mai avuto figli. Forse era questo il motivo per cui era diventato così geloso delle sue cose, a tratti così irritabile?
Poteva anche essere. Certo che poteva essere.
Restava il fatto che il suo partito a Gianmatteo davvero non avrebbe voluto cederlo.
Il tempo oramai era giunto al limite. A breve avrebbe dovuto pronunciare il discorso di fine mandato e sciogliere il consiglio comunale.
Dopo le vacanze estive, certo. Dopo le vacanze estive, l'iter sarebbe stato quello per forza di cose. E al diavolo tutto, pure Gianmatteo, che facesse ciò che voleva.
Lui aveva dato.
Anche, e soprattutto, con il suo matrimonio.
Tornando a casa, avrebbe annunciato a Doriana la sua volontà di divorziare. Ci aveva riflettuto a lungo. Per anni. Il momento era arrivato.
Era finalmente certo. Certo che le fatidiche parole non sarebbero mai uscite dalla sua bocca.

***

Al termine delle vacanze Massimo era ancora sposato con Doriana. L'estate era stata tremendamente noiosa. Come sempre.
Si sentiva zeppo fino all'orlo di rancori e di frustrazioni quando giunse alla sala assembleare del Comune per tenere il suo discorso di fine mandato. E per annunciare la candidatura di Gianmatteo come suo successore, come infine era stato deciso.
Continuava a essere contrario in proposito, e come lui anche diversi tra i suoi collaboratori più antichi mostravano diverse perplessità.
Ma una volta avvicinatosi al microfono qualcosa, una molla di sopportazione nascosta e portata alla pressione estrema, scattò dentro di lui.
Dopo avere pronunciato l'ultima parola del suo discorso, inaspettatamente, lasciando gli astanti sbigottiti, annunciò una scissione interna al suo partito.

mercoledì 1 febbraio 2017

Renzi, Giulio Cesare e il dopo referendum

Questo articolo lo scrissi tra il 5 e il 6 dicembre 2016.
Ho provato a proporlo un po' in giro, senza grande successo.
Poi me ne sono dimenticato. Ho lavorato ad altro.
Oggi appare qui per puro sfizio.


Renzi, Giulio Cesare e il dopo referendum

Venerdì 2 dicembre mi sono svegliato con in testa una sorta di parallelo storico-politico, chiaro e nettissimo. Quando mi capitano episodi del genere non posso fare a meno di rivivere quella grandissima scena del Gattopardo in cui Burt Lancaster introduce la sua considerazione politica al padre Pirrone ("Lo sa cosa succede da noi? Niente succede"). Non è un caso forse che, anche nel libro di Tomasi di Lampedusa, il pensiero politico che esce dalle labbra del principe di Salina nasca in un momento casuale di primizia mattutina, mentre questi si sta radendo.
Uno studente di storia e di letteratura quale io sono non può fare a meno di vedere, nella vita pubblica, nei fatti di cronaca di tutti i giorni, la ciclicità degli eventi, le storie che si replicano. E, da qualche giorno a questa parte, personalmente non riesco a non vedere gli ultimi spasmi della repubblica romana, e in particolare la vicenda di Giulio Cesare.
Cesare è un uomo dall'intelligenza politica fuori dal comune, che sa unire abilità tattiche e tempi di manovra con una precisione assoluta. Non a caso arriva alla massima carica di potere con un meccanismo inusuale ma previsto dalle leggi. Non inventa nulla, si può dire: cavalca gli eventi e gli stati d'animo a regola d'arte, procedendo in maniera talvolta evidentemente discutibile ma calcando la linea di una precedente, seppure deprecabile, tradizione. Sfruttando l'incarico proconsolare come nessun altro prima di lui può rimarcare una dignitas originale, cucita su misura per sé, e fare piazza pulita di qualsiasi altro concorrente (esterno come interno alla sua corrente) fino a diventare, a tutti gli effetti, il dominus assoluto della politica romana.
Non trovare delle curiose coincidenze con la rapida ascesa del dimissionario Presidente del Consiglio è per chi scrive impossibile.
Non era impossibile per un politico romano diventare console almeno una volta nella vita (l'incarico era di durata annuale, e perdipiù si esercitava in coppia).
Difficile era, semmai, restare sulla cresta dell'onda, non appiattirsi nei comodi meccanismi clientelari cui l'appartenenza all'aristocrazia senatoria aveva fatto una parassitaria e stagnante abitudine.
Non è impossibile per un politico di professione diventare sindaco della propria città di origine. Difficile può essere, da "semplice" sindaco, diventare in tempi brevissimi segretario del più grande partito nazionale e a furor di popolo capo dell'esecutivo.
Cesare assume l'incarico di Dittatore (con la maiuscola, proprio perché si trattava di una carica prevista dagli ordinamenti repubblicani e non del sostantivo deteriore che si intende oggi) e la prima cosa che fa è perdonare i suoi avversari. Agisce così per tutta una serie di ragioni, non ultima una certa convinzione che la Pietas (altro termine da intendere alla latina, profondissimo e diverso da quello della "pietà" comunemente intesa) appena dimostrata gli farà, e non poco, gioco.
Cesare assume la dittatura, che gli viene consecutivamente rinnovata nel corso degli anni, e senza abolire le magistrature vigenti, ma anzi incrementando in un certo senso il numero dei funzionari dello Stato, avvia un profondo meccanismo di rinnovamento dello stesso. Il progetto di Cesare è chiaro e semplice: egli si è reso conto che l'immobilismo della Repubblica è da imputare principalmente proprio alla classe degli Optimates, dei senatori, che tra le altre cose non è più rappresentativa del corpo societario reale. Quindi decide di ampliarla. Non si tratta ovviamente di un processo democratico in senso moderno; sarebbe pretestuoso crederlo. Si tratta, semmai, di ridistribuire delle competenze, dei carichi di lavoro, delle clientele (che quando sono troppe diventano l'anticamera della corruttibilitá) e pertanto anche dei flussi di denaro. Con l'effetto collaterale di una maggiore apertura della politica nei confronti della società, questo è pur vero.
Naturalmente ai senatori questa ipotesi di rinnovamente non piace nemmeno un po'. Ed è così che si arriva alle Idi di marzo.
Ma ormai il dado è tratto. Alea iacta est.
Cesare è passato e un segno lo ha tracciato. Sperare di tornare indietro, una volta che il meccanismo si è avviato, è impossibile. Quale meccanismo? Quello che porta a un maggiore accentramento del potere, ovvio. Che è, per un insieme di convenzioni e di sensibilità un meccanismo relativamente lento, ma inesorabile.
Negli ultimi anni di vita della repubblica romana gli uffici tradizionali continueranno a essere coperti stabilmente, ma avranno sempre meno vigore. Questo strascico istituzionale permetterà a Marco Antonio di far passare per progetti personali intenzioni e disposizioni già avviate (o comunque già concepite) dallo stesso Cesare.
Non vi sono particolari diversità da quanto è accaduto al governo di Renzi. Il Matteo fiorentino è stato in buona sostanza il primo a proporsi come leader della cosiddetta Terza Repubblica, e si è posto quale leader in un modo sostanzialmente nuovo, molto più "presidenzialista" di quanto nemmeno lo stesso Berlusconi, evidentemente impacciato dai vari vincoli di coalizione tra AN e Lega Nord, fosse mai riuscito a fare.
Matteo Renzi è passato, e con questo non voglio certo dire sia finito.
Intendere un presidente del consiglio "garbato" e in senso largo rispettoso dei confini tra i più diversi ruoli istituzionali non sarà più possibile per un pezzo.
Lo stesso si può dire della mancata riforma istituzionale.
Se ne è parlato talmente tanto che ha finito col depositarsi nel profondo delle coscienze. Pur senza riscuotere il successo che l'esecutivo sperava, è ben stata scritta, tutti ne hanno parlato, molti l'hanno capita (al punto di criticarla e di avversarla).
Il Rubicone è stato attraversato: la storia di Roma ha dimostrato che da quel momento, da quelle prime truppe entrate in armi entro i confini della repubblica, nessun capo ha più potuto fare a meno di governare senza l'ausilio di una legione, pubblica o privata che fosse.
Non credo sia eccessivo prevedere che nessun presidente del consiglio, in futuro, riuscirà a governare senza tentare di essere il più "presidenzialista" possibile. Nessun capo potrà fare a meno di farsi chiamare un po' Cesare.
Adesso ci troviamo nel momento della transizione, al domani delle idi.
La transizione Roma la gestí con un triumvirato.
Marco Antonio, il luogotenente delle guerre galliche, esuberante e caratterialmente sanguigno.
Ottaviano, prodotto speculare del padre adottivo, esatto e contrario, ancora più scaltro e ancora più spregiudicato.
Lepido, il fedele, il protetto, proconsole in Spagna: il terzo incomodo di cui quasi ci si scorda.
Lepido oggi potrebbe essere tranquillamente Bersani, o Speranza, o Cuperlo magari.
Marco Antonio viene certamente dalle fila dei 5 stelle.
Ottaviano? Forse è proprio l'altro Matteo.
In fondo la pax augustea altro non fu che un deserto dopo uno sterminio. Ovvio, dalla pancia del popolo fu digerita tranquillamente dopo circa due generazioni di conflitti intestini. L'ultima guerra intestina la vinse Ottaviano, che non era certo il migliore, moralmente parlando, dei tre (ma è pur vero che scegliere un "migliore", tra i tre, non è impresa da poco).
Dove si colloca Berlusconi in tutto ciò? Provocatoriamente, Berlusconi sarebbe Cicerone: la prima, antesignana, avvisaglia di un cambiamento del corpo politico che non è mai avvenuto. Convinto di poter indirizzare il nuovo giovane leone e condannato a essere contraddetto dai fatti.
Da Cesare, da Ottaviano in poi, la storia ha conosciuto gli imperatori: qualcuno non è stato un male (Traiano, Nerva, Marco Aurelio); molto più spesso non è stato un bene.
... e i cesaricidi? Dopo le idi di marzo se ne è persa la memoria.