NCP, necessaria considerazione di partenza: viviamo in una
società talmente miserabile che per ricordarci che esistono gli Uffizi di
Firenze abbiamo bisogno di Chiara Ferragni.
Questo è il dato di partenza: prova ne sia che, con una foto
scattata davanti alla Venere di Botticelli, l’effetto Ferragnez ha portato agli
Uffizi un incremento di visitatori under 30 del 25% e rotti.
Ora, io non ho interesse ad accodarmi a questo dibattito più
di quanto ne abbia per lo scrivere di cucina, un tema che non suscita il mio
interesse e che non mi sforzo nemmeno di capire. Tuttavia, stamattina ho letto
un pezzo de Linkiesta che stavo quasi reputando interessante. Questo prima che
l’ultimo paragrafo lo facesse crollare miseramente ai miei occhi.
«Fossi
Chiara Ferragni, la prossima foto da milioni di cuoricini me la farei in un
museo qualunque d’un paese qualunque che non disprezzi la moda, l’unica forma d’arte che contribuisce al
prodotto interno lordo e che, se si presta a fare da traino a commerci minori quali i biglietti d’un
museo, deve pure prendersi gli insulti (...)»
Stop. Fermi tutti. Non ci siamo proprio.
Qui mi hanno proprio sanguinato gli occhi.
Dobbiamo decidere di che cosa stiamo parlando.
Non ho interesse e non ho competenza per parlare di Chiara
Ferragni come non ne ho per parlare di moda o di marketing. Ma se devo parlare
di società, di storia o di cultura allora qualcosina credo di poterlo (e di
doverlo) dire anch’io.
Che cos’è un museo, in effetti? Raramente un museo nasce
tale. Un luogo o un palazzo diventa museo, semmai, a una condizione e con un
preciso obiettivo: che è quello di attestare qualcosa di un passato, di una
civiltà. E una civiltà, di solito, si attesta in (pochi) modi diversi: attraverso
la bellezza, attraverso una testimonianza non fraintendibile, attraverso
messaggi veicolati in modo da risultare sempre comprensibili, nonostante lo
scorrere del tempo appunto.
Io non capisco nulla di moda; ma non posso fare a meno di
ammettere che certe sfilate abbiano in sé una loro suggestiva potenza. Non ne
capisco nulla; ma non per questo nego che siano prive di significato, che non
abbiano magari dei messaggi di fondo da comunicare. Se non ne avessero, d’altronde,
non avrebbero assolutamente senso di esistere. Non ne avrebbero, perché nessuno
andrebbe in giro con gli abiti delle sfilate addosso, e perciò nemmeno il
significato di catalogo vivente si potrebbe adattare a certi generi di
passerelle.
Dunque, se le sfilate sono portatrici di un qualche
significato che in qualche modo parla del loro tempo, non vedo perché non
debbano essere ospitate anche in un museo (perché no?): ciò non significa altro
che sommare a suggestioni attuali suggestioni di ieri. Non ci trovo nulla di
sbagliato.
Non è certo una novità, la “contaminazione” tra siti museali
ed eventi mondani di una certa importanza. Sfilate di moda si sono tenute al
Louvre, nella Valle dei Templi, persino agli Uffizi stessi.
Cosa diversa sarebbe però se i musei aprissero le loro porte
a chiunque, a ogni genere di iniziativa.
Tiro fuori uno degli esempi citati dall’articolo di
Linkiesta: anni fa i Della Valle sponsorizzarono di tasca loro alcuni imponenti
lavori di restaurazione del Colosseo. Tolte le dovute considerazioni sul fatto
che lo Stato italiano non sia in grado di prendersi cura di uno dei suoi beni
più iconici, va bene che Della Valle paghi la restaurazione di un sito
archeologico. Ha il diritto di proporsi almeno quanto lo stato ha il diritto di
accettare i suoi soldi. E Della Valle ha pure, se lo desidera, il diritto di
richiedere in cambio i diritti di sfruttamento dell’immagine del Colosseo per i
suoi prodotti. Noi possiamo discutere sul fatto che lo Stato “svenda” a un
privato tali diritti; ma dal momento che cede gli oneri di una costosa
manutenzione ci può anche stare. Ciò che non è legittimo è che Della Valle organizzi
una cena, tra le mura del Colosseo. E questo non tanto (e non solo) perché è
una scelta di pessimo gusto, mangiare al chiaro di luna in un teatro dove, per
divertimento, è stato versato tanto sangue e tanto a lungo. Ma per il fatto,
appunto, che parlando del Colosseo parliamo di un museo.
Nel momento in cui un Della Valle si “appropria” del
Colosseo a questa maniera, si rompe un muro invisibile, si sdogana la
concezione che tutto si possa fare. A condizione di sborsar baiocchi. Allora
non ci si può sorprendere se James Pallotta, il presidente dell’a.s. Roma,
dichiara (scherzosamente?) che avendo il Colosseo quasi le dimensioni di un
campo da calcio regolamentare sarebbe bello che la sua squadra un giorno ci giocasse
una partita.
Anche questa può essere letta come una conseguenza
semplicistica; ma mi si concederà che i ragionamenti di principio hanno tutti
una forte impronta di semplicismo. I concetti per loro natura si riducono
all’osso, quando è necessario spiegarli nell’essenzialità.
Arriviamo quindi al dunque. È importante che Chiara Ferragni
abbia visitato gli Uffizi, postato le foto di rito sul suo instagram e, come
conseguenza, invogliato diversi giovani a visitarli? Non è “importante” il
fatto in sé: non abbastanza da farne scaturire un dibattito. Piuttosto, sono
importanti i dettagli “laterali” dei quali non si è parlato. Perché, se
accettiamo come abbiamo detto che i musei siano dei depositi di civiltà, e
quindi dei luoghi che appartengono a tutti noi, allora è legittimo pretendere,
questo sì, che il fattore Ferragni in relazione all’aumento degli ingressi sia
stato casuale o quantomeno che sia stato un contributo offerto gratuitamente.
Che la blogger milanese tramuti in oro tutto ciò che tocca è più vero e più
attuale della leggenda di Re Mida; e certo non sarò io a mettere in discussione
se questo sia o no “giusto” (secondo quali criteri, poi?).
Ciò che mi disturberebbe, e parecchio, sarebbe piuttosto scoprire
che questa visita della Ferragni fosse stata concordata in precedenza con la
direzione del museo, e che questo l’abbia remunerata per un paio di click.
Questo sì, mi potrebbe infastidire.
Perché? Per una ragione molto semplice. Perché le leggi del
mercato e dell’impresa non si possono applicare ovunque. Così come nessuno si
aspetta che la Caritas diventi una multinazionale del settore alimentari, allo
stesso modo è insensato pensare che il valore di un museo sia dato dal numero
di biglietti che stacca ogni anno.
Molti anni fa un mio insegnante scrisse una relazione per il
consiglio docenti del liceo che frequentavo, ragionando proprio
sull’opportunità da parte della scuola di mantenere nel piano dell’offerta
formativa tanti corsi extra-curricolari. Giacché i docenti che si occupavano di
tenere tali corsi rappresentavano comunque un costo vivo, era (e credo sia
tuttora) uso della scuola alzare una soglia minima di studenti partecipanti, e
se questa non era raggiunta... il corso non prendeva proprio piede. Fin qui,
tutto logico. Ciò che scrisse il mio professore, e che mi torna in mente oggi,
era più o meno questo: attenzione a ragionare sulla quantità. Pur costretti a
ragionare come un’azienda, noi siamo una scuola e ciò che ci deve premere è
l’altezza delle vette che siamo in grado di raggiungere. Possiamo, se lo
vogliamo, decidere di tenere persino un corso pomeridiano di numismatica
medievale: se questo corso fosse seguito anche da un solo studente, ma così
appassionato all’argomento da far diventare la numismatica medievale la ragione
della sua vita, ecco, i soldi per tenere quel corso noi come scuola non li
avremmo certo sprecati.
Non è accettabile, per un’entità quale un museo, inseguire disperatamente
parametri di performabilità, nemmeno parlassimo di una botteguccia qualsiasi.
Non lo è, e basta. A meno che decidiamo, adesso, che nella
matematica della nostra esistenza 1+1 non potrà mai fare 3; e che gli unici
calcoli possibili si svolgano solo tra numeri interi e solo tra i segni delle
quattro operazioni principali: +, -, x, : .
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