La cosa più meravigliosa di Letter to you è che si tratta di un album che risponde a delle domande. Domande che Bruce Springsteen si pone da sempre; e domande che invece il Boss si poneva da tredici anni. Non è possibile infatti capire davvero questo disco se non facciamo cinque distinti salti indietro nel tempo.
Ottobre 2007, esce Magic: un album completo, una bella sintesi di tutte le tematiche che il Boss ha sempre affrontato. Dalle parentesi rabbiose alle immagini delicate, dai canti corali di impegno ai richiami rivolti a un’America refrattaria e appiattita. Eravamo agli sgoccioli dell’ultima presidenza Bush.
Gennaio 2009, è il turno di Working on a dream: un lavoro più leggero, la cui title track era stata lanciata alcuni mesi prima in supporto della campagna presidenziale di Barack Obama. Era un momento di grandi speranze e (si credeva) di passaggi epocali.
Marzo 2012, ecco Wrecking Ball (il disco di Springsteen cui sono personalmente più legato). Praticamente un concept album: il grande disco della grande crisi economica. Ritratti di squali e di lavoratori, infaticabili e schiacciati. Alcune speranze più o meno vane, ma soprattutto la risposta dell’orgoglio, nell’ora più buia vissuta fino a quel momento.
Di due anni dopo, nel 2014, è High Hopes: la storia non cambia, la rabbia cresce. Ci sono ancora alcuni sprazzi di luce, di speranza, che però non alterano un senso complessivo reso tanto più autorevole dalla riproposizione di un pezzo come The Ghost of Tom Joad.
Bisogna aspettare altri cinque anni per un nuovo disco e nell’aprile 2019 esce Western Stars: un lavoro meraviglioso, che tuttavia per stessa ammissione di Springsteen, è “solo” «un gioiello di disco... con travolgenti, cinematografici arrangiamenti orchestrali». Una serie di incursioni nel melodico e nel country che però somigliano più a un capriccio artistico dell’autore che al proseguo del romanzo americano targato Springsteen.
Perché il pubblico aspettava qualcosa in questo senso, e questo il Boss lo sapeva.
Per questo, il 23 ottobre 2020, è arrivato Letter to you. E Letter to you è la risposta a tutto.
Il sogno si è tramutato in incubo, gli amici se ne sono andati, la speranza si è praticamente esaurita. Per anni, per una vita intera, Bruce Springsteen ha cantato il sogno americano, il partire, l’arrivare, il farcela, la terra promessa cui tutti quanti puntavamo, e alla quale ci eravamo illusi di poter arrivare semplicemente prendendo un treno dei desideri. Bene: niente di tutto ciò è più possibile.
Siamo stati feriti, abbiamo pianto, ci siamo avvicinati gli uni con gli altri. Abbiamo pregato. E adesso abbiamo scoperto che pregare non basta. O perlomeno, che pregare non basta più.
Non perché non creda (più) in Dio, Bruce Springsteen. Ma perché anche pregare è diventato una merce di consumo. E da tutto ciò che viene venduto a buon mercato, oggi più che mai, bisogna guardarsi molto attentamente.
La scaletta dei brani, una discesa nell’anima del Boss
Già con One minute you’re here abbiamo, stese come i capitoli in un sommario, le linee tematiche di tutto l’album. Troviamo l’assenza di certezze, il guardarsi allo specchio e il non riconoscersi, la progressiva precarietà di tutte le cose. One minute you’re here, one minute you’re gone. Non a caso, a un certo punto del brano la melodia si trasforma in qualcosa di sempre più simile a un carillon; poi sfuma: quasi d’improvviso. E finisce la canzone, volutamente tronca, seguendo un’evoluzione dalla traccia di chitarra acustica iniziale il cui significato è fin troppo chiaro.
Segue la title track, e Letter to you è un brano che sembra scritto in ginocchio, con cui Springsteen afferma di voler mettere per iscritto tutte le cose che con il cuore ancora sente essere vere. Non ci dice però quali sono queste cose: intuiamo, quello sì, che nessuna verità ci sarà rivelata e che anzi assisteremo a una serie di contrasti (sole e pioggia, gioia e dolore, notti buie e mattini limpidi).
Con Burnin’ train la simbologia si fa più complessa; e questo è forse l’aspetto più intrigante di tutto l’album. Perché Springsteen è uno che le cose le ha sempre dette con precisione, chiare e nette. Ma in questo 2020 fatto di contrasti e di contraddizioni, di promesse deluse e di apprendisti stregoni pronti a sbucare da ogni dove, anche definire la verità (la sua verità) sembra essere diventato qualcosa di incredibilmente difficile. Con Burnin’ train ce ne sono tanti di contrasti, specie tra bianco e nero. Tra bianchi e neri. Abbiamo sentito il ragazzo del New Jersey cantare più volte e più volte di treni: treni che andavano in centro, treni di sogni e di speranze, treni provinciali per Tucson, treni che seguivano il corso del fiume, la notte e una serie infinita di eroi locali “minori”, trenini dell’amore dentro ai parchi-giochi. Questo invece è un treno in fiamme. È un treno di rabbia. Per salirci occorre una benedizione, che stavolta non si ottiene dalla luce né dalla grazia; ma dal sangue e dal marchio di Caino. Se anche uno non volesse scorgerci un accenno ai tanti movimenti in difesa delle minoranze che sempre più numerosi nascono negli Stati Uniti, il brano successivo è quanto mai eloquente: Janey needs a shooter è una ballata rock vecchio stile, bella e mai pesante, e parla di abusi. Abusi perpetrati da un medico, da un prete e da un poliziotto. Ma non si tratta una sottoscrizione ai #MeToo: questa canzone è stata scritta nel 1978. “Crazy Janey” era già allora un personaggio popolare del repertorio springsteeniano e, oggi possiamo dirlo, con lei il Boss aveva visto parecchio lungo.
Last man standing, con il suo lirismo di tasti e batteria, è probabilmente la più autobiografica delle tracce presenti e Springsteen non fa nulla per nasconderlo. Thrift-store jeans and a flannel shirt è un verso che contiene il ritratto di una generazione: il manifesto di chi partiva con abiti di seconda mano e una chitarra. Con questo brano il Boss ammicca fortemente al suo pubblico, sembra quasi voglia ricordare quale è stato il suo manifesto di partenza. E infatti con The power of prayer rende chiara la prima delle conclusioni cui è giunto, a quarant’anni dagli esordi: è importante pregare, ma più importante è fare. Non ci è bastato unirci nel dolore e nel terrore, con il nemico alle porte. Perché «il gioco è truccato e senza regole, e si gioca su un tavolo senza posta in una nave condotta da folli». Ciò che ci salva perciò è tenere uniti i cuori e saper pagare anche per chi gli altri. La preghiera, con il suo potere, si manifesta qui e ora. House of a thousand guitars ricalca ancora questi concetti; e cominciamo a renderci conto di una certa serie di ripetizioni che corre per tutto l’album: small-town bar dove la musica diventa vera; l’unione sincera delle persone che consente di accendere la fiammella. «We’ll rise together till we find the spark». È interessante notare come anni fa, nel pieno del sogno e con la terra promessa come punto di arrivo, visibile all’orizzonte, Springsteen dicesse invece che il fuoco di accende dalla scintilla, e che senza quella scintilla non c’è nulla. Quanto e come siano cambiati i tempi è più che mai evidente.
L’attacco di Springsteen a Trump
Nel cuore di Letter to you Springsteen non lesina critiche all’attuale presidente e anzi si può dire che gliele suoni di santa ragione. Come per la prima presidenziale di Obama salta fuori l’impegno politico; e infatti in Huose of a thousand guitars c’è un riferimento a un “clown criminale che ha usurpato il trono, e che ruba ciò che non potrà mai possedere”.
Ma il pezzo in cui Donald Trump è descritto con più ferocia è senza dubbio Rainmaker. Con un ritornello semplice e chiaro, fatto di rapidi esplosioni, scritto per essere ululato negli stadi, Bruce descrive l’arrivo in una terra dove non piove più da mesi di questo imbonitore che guarda caso sembra avere in tasca tutto ciò di cui la povera gente ha bisogno. Si può leggere nel verso «the house is on fire» un riferimento a Greta Thunberg e in generale alle proteste ambientaliste cui il presidente americano ha sempre risposto con insensibilità. Ciò che al Boss preme sottolineare è però come la speranza sia un prodotto di grande vendita tra i disperati; e soprattutto come la gente abbia bisogno di credere in qualcosa di chiaramente sbagliato. Questo concetto è approfondito con If I was a priest, in cui Springsteen tratteggia una storiella iconoclasta in cui Gesù fa la parte dello sceriffo e la Madonna vende palloncini benedetti. Al di là dell’impalcatura country, il messaggio è semplice: siamo sempre più in troppi a non fare la nostra parte, a mettere bocca e a occuparci di mestieri che non ci appartengono.
Un’ulteriore satira contro il presidente si vede nel penultimo brano, Song for Orphans, dove è delineato il punto di vista fuori luogo e fuori tempo di un ex generale confederato, che se la prende con il mondo e con il suo progressivo abbruttimento. Lì, dove i figli aspettano padri che non torneranno a casa e dove persino gli eremiti di professione sono in cerca di amici, non si può fare altro che aspettare il vecchio vagabondo Dog Man Moses. Anche qui, l’assonanza tra la parola tramp e il cognome del presidente Trump potrebbe proprio non essere un caso.
L’altra riva del fiume
Chiudono idealmente Letter to you due canzoni.
Ghosts in particolare sembra presentarsi come un validissimo singolo. E sembra anche il singolo che fa da seguito a Wrecking Ball, le risposte positive che dall’album del 2012 erano rimaste in sospeso.
A un primo ascolto si potrebbe credere, a torto, che anche questo sia un brano autobiografico. In effetti lo è, ma nella misura in cui è autobiografico per ciascuno di noi. I sogni che ciascuno di noi ha avuto sono rappresentati da quella bella immagine di stivaletti e speroni che una volta indossavi: ne senti ancora il picchiettare sul pavimento, passo dopo passo. Ma non sono mai arrivati da nessuna parte. Con questo pezzo la presa di coscienza che il sogno è esaurito è messa ancora una volta nero su bianco. Ma non è un problema. Perché, banalmente, sono rimasti i brividi. E io mi rendo conto che questi brividi sono il segno che ho ancora del sangue nelle vene, che sono vivo, che riesco a guardarmi da fuori, senza menzogne.
I fantasmi cui il titolo allude, dunque, non sono quelli che ci hanno lasciato. È ovvio che il Boss pensi comunque un po’ a Clarence Clemons e a Danny Federici (soprannominato the Phantom, casualità), giusto per citare due compagni di ciurma della E Street band che di certo gli mancano parecchio. Ma non è questo il punto: i fantasmi siamo noi, voi, gli altri che già si trovano sull’altra riva del fiume, vivi e uniti nella verità che la musica rivela. L’unione con gli altri, forse per la prima volta nella lunga carriera di Springsteen, è eminentemente spirituale e ha per figlia la vicinanza fisica con i propri simili; non il contrario.
È giusto quindi parlare di fantasmi, o meglio di spiriti. Ghosts siamo noi, ognuno di noi, denigrati e de-stimati dal mondo in cui viviamo. Ma pure destinati a trovarci, grazie a un artificio, a un’illusione non troppo diversa dal sogno. L’arrivederci di questo nuovo disco, I’ll see you in my dreams, è dunque un arrivederci agrodolce, colmo di suggestioni. Suggerisce che qualcosa della terra promessa sia ancora possibile, prossimo e reale, sebbene in un modo diverso da come la abbiamo sempre immaginata.