venerdì 28 dicembre 2012

IO & BRUCE: Nothing Man


Il cuore per preservarsi tende a dimenticare tutto ciò che occorre

Non ricordava come si fosse sentito. Non ricordava come si fosse sentito quando espresse per la prima volta i suoi sentimenti davanti a una ragazza. Non ricordava come si fosse sentito nei giorni immediatamente successivi al "no" di lei. Non ricordava come avesse passato quel compleanno. Non ricordava, ma si conosceva; e per questo motivo sapeva, o almeno "credeva di immaginare" quello che plausibilmente aveva fatto. Sapeva di avere camminato e camminato e camminato per circa 7-8 km, da mezzanotte fino all'una del mattino abbondante. Sapeva di essersi sfogato un paio di minuti con la sua migliore amica in un'affollata piazza della movida cittadina. Sapeva di aver poi proseguito per almeno un altro miglio a piedi fino a casa sua. Sapeva perciò di avere rincasato piuttosto tardi per i suoi standard (o, comunque, per quelli che all'epoca erano i suoi standard). Sapeva di averne pagato fio subendo abbondante metaforica sodomia da parte di suo padre. Sapeva di avere festeggiato i suoi 18 anni con uno sforzatissimo sorriso stampato sulla faccia; sapeva di avere mal accolto e mal sopportato i familiari suoi ospiti; sapeva di non averne digerito le telefonate di auguri.
Sapeva: perché in effetti aveva una memoria di ferro che difficilmente tendeva a dimenticare.
Ciò che invece non ricordava, ciò che aveva dimenticato, erano le sue emozioni di allora.
Non ricordava se il suo sopracciglio, improvvisamente ballerino davanti alle incazzature, lo avesse o meno tradito mentre le era di fronte; non ricordava se avesse avuto bisogno di fumare; non ricordava quanto il cuore gli si fosse agitato dentro il petto mentre vagava da solo per le strade notturne di una metropoli quel sabato sera incredibilmente deserta. Non ricordava neppure se la città, quella sera, fosse stata veramente così deserta o se era stata semplicemente la solitudine a fargliela apparire così.

La domanda fondamentale

Tuttavia, se ne restò fuori a far gelare il culo. Con buona pace per il suo raffreddore. Restò lì, come aveva fatto per buona parte della primavera, per tutta l'estate e per quell'inizio d'autunno. Restò lì, come aveva intenzione di fare poi per tutto l'inverno, ormai neanche troppo lontano a venire. Per le stagioni successive, chissà. Ma credeva di conoscere la risposta. Aveva fatto come un patto con le sue emozioni: lui le drogava, le imbottiva di morfina, le anestetizzava mal simulando un fittizio senso di pace all'interno di uno squallido tran tran che, almeno per un po', lo aveva illuso di poter un giorno essere felice. In cambio, loro non lo uccidevano. Non era tanto la depressione a fargli paura. Per quella, anche se inconsapevolmente, ci era passato: ci era finito dentro e poi ne era uscito, aveva saputo andare oltre. Non sapeva come: probabilmente grazie a quell'illusione, quel mondo ad hoc che si era creato su misura. Quindi no, non era la prospettiva di una nuova crisi a spaventarlo. Era ciò che ne sarebbe probabilmente derivato: la fine, la fine di tutto, la morte del cuore. Un cuore straziato da tempo, è vero; ma, per quanto assurdo possa sembrare, l'essere umano non scende mai a compromessi quando deve porsi la domanda fondamentale: vivere o morire? Se poi questa domanda arriva improvvisamente, e senza farsi attendere, allora la risposta è tanto più repentina. Istinto di autoconservazione, lo chiamano gli antropologi. Gente che ha studiato.

"Se capovolgi il mondo, lo specchio ti riflette..."

Tesoro, dammi un bacio...
Dio, dammi la forza...
E limitatevi a capire questo: io sono il signor nessuno.
Sono il signor nessuno.
E' questo che pensava sotto a un cielo terribilmente nero, orfano come lui della luna e delle stelle. E osservando quella fortuita vacuità del cielo sentì una feroce carica di freddo percuotergli il corpo, facendolo rabbrividire tutto lungo la spina dorsale. Il gelo passava di vertebra in vertebra, come un treno provinciale lungo le stazioni di tutti i paesi. Fu in quel momento che realizzò. Realizzò che quella sensazione di gelo non sarebbe passata mai. Realizzò che un altro anno, invece, era appena passato.
Girò la testa verso sinistra, si specchiò in una vetrina e credette di essere invecchiato. Non era vero, ma lo credette. Un'automobile fece manovra e parcheggiò a ridosso del marciapiede, dritto per dritto rispetto dove era lui.
La luce dei fari si proiettò sul vetro annullando l'effetto specchio e lui vide la sua immagine sparire.

Manet - I bevitori di assenzio

Da quelle parti tutti hanno perso qualcosa. Ed è il motivo, l'unico possibile, per cui tutti ci si ritrovano, seduti a sorseggiare intrugli di ogni genere, seduti all'aperto, incuranti di che tempo faccia, a un po' tutte le ore del giorno.
Si tratta di una realtà, di una logica, non troppo nuova e nemmeno troppo originale. Un pittore francese, Manet, l'aveva saputa rappresentare perfettamente con un disegno pure piuttosto famoso.
Quali fossero i problemi degli altri, quale il motivo del loro stare lì, sinceramente non gli importava. Sapeva il suo; e il suo, ne era convinto, bastava per due vite di solitudine in un bar.
Aveva finalmente messo a fuoco la questione, però. Aveva analizzato il problema. Però il problema ancora persisteva. Però era ancora lì. Però il cielo era ancora nero sebbene, quella volta, fosse nero perché gravido di pioggia.
Niente di nuovo, dunque; almeno per un osservatore esterno.
Ma una differenza c'era, e lui la conosceva. Era sottile, ma c'era: si era trovato un secondo motivo, un secondo perché. Meno probabile di quello principale, è vero. Ma ce lo aveva.
Faticava a stare in piedi da solo, ma intanto esisteva: lui lo avrebbe retto fintantoché gli sarebbe tornato utile.
In fondo si trattava di una farsa, e sapeva bene anche questo. Ma era di altro, in verità, che aveva bisogno? Il problema stava tutto lì.
Non aveva risposte sul lungo termine, ma aveva imparato a confezionarsene tante a breve scadenza. Si sarebbe illuso ancora, perché no? E poi avrebbe provato a sostituire la nuova illusione alla vecchia, o a far sì che tutte e due si annullassero a vicenda. Da due segni "-" a un segno "+". Se era possibile in matematica perché non poteva essere lo stesso anche nella vita...?
In fondo non c'era niente di nuovo, né di originale. Niente che altri prima di lui non avessero già passato.
E, se non era migliore di tanti altri, pure sapeva di non esserne peggiore. Era un signor nessuno, un uomo come tanti altri; forse un filino più prudente di molti. E, con estrema cautela, riprese lentamente ad affacciarsi verso la vita.


lunedì 17 dicembre 2012

I Don't Like Mondays è senza dubbio il singolo più famoso dei Boomtown Rats. Nel gennaio del 1979 il frontman della band, Bob Geldof, sentì la notizia di una sedicenne di San Diego, negli Stati Uniti, di nome Brenda Ann Spencer, resasi protagonista di una sparatoria nella sua scuola che portò alla morte di due persone, oltre a nove feriti. Quando un giornalista riuscì ad avvicinarsi alla Spencer e a chiederle il motivo di quel folle gesto, lei rispose semplicemente "I don't like Mondays" ("Non mi piacciono i lunedì"). Questa terribile frase ha ispirato il musicista irlandese tanto da fargli scrivere una canzone. Nel corso del 1980 i genitori di Brenda Spencer hanno tentato senza successo di bandire I Don't Like Mondays dagli U.S.A.







'Sandy Hook Elementary School'
Newtown, Connecticut

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