giovedì 24 gennaio 2013

postilla a Secret Garden


Ogni storia merita il suo finale, la sua giusta evoluzione.
Per questo, a distanza di anni, ho riscritto una parte di Io & BRUCE: Secret Garden che non mi era mai piaciuta veramente.
Particolarmente soddisfatto del risultato, ecco il primo post del 2013, ultima fatica di un non breve 2012.

A questo link, la storia inserita nel contesto, l'aggiornamento dell'episodio Secret Garden nella rubrica Io & BRUCE.


Continuava a camminare in salita da ormai troppo tempo; la cima non si vedeva ancora. Camminava in salita religiosamente lungo la strada asfaltata, in modo da non perdersi: un puntino nero in mezzo all'assurdità del bianco. Già, perché intorno a lui il bosco era stato sommerso da un manto di neve affatto soffice. Era neve acuminata, prossima al ghiacciamento, senza un tocco di buoni sentimenti. Di quella neve che non nasconde solo le cose in sé, ma che pure elimina gli odori. Di quella neve cattiva, che fa sentire soli. Tuttavia, ringraziò il cielo di vedere ancora esclusivamente il bianco tutto intorno, perché sapeva che se avesse cominciato a vedere il nero, quello sarebbe stato il sintomo inequivocabile di quello stato di salute che precede di appena una manciata di secondi lo svenimento. E sapeva bene che in quel luogo svenire, cadere, fermarsi, erano sinonimi di morire. Nessuno sarebbe passato di lì: nessuno sapeva dove fosse andato; quindi nessuno sapeva dove cercarlo.
Doveva almeno arrivare in cima. Stringere i denti il più possibile, ma arrivare alla vetta. Per un attimo, un attimo solo, riuscì a guardarsi dall'esterno: si vide, si esaminò, tirò le somme, espresse un giudizio. E comprese come lo avrebbe definito qualsiasi persona dotata di buon senso che avesse potuto conoscere il motivo di quel suo tanto penoso vagare: un folle. Non trovò argomentazioni per controbattere all'accusa e accettò suo malgrado la sentenza.
Non esiste persona o cosa al mondo, si diceva, per cui valga la pena morire. Eppure lui era lì, di sua unica volontà, pronto a rischiare il tutto per tutto, per il motivo più naturale e insieme più assurdo che si possa immaginare: aveva perso una cosa, una cosa troppo importante che voleva, anzi doveva, ritrovare a ogni costo. Non si trattava di un oggetto materiale, di quelli che si toccano con le mani, ma nemmeno di un astratto concetto esistenziale, tipo la dignità, l'amore, la fiducia o quant'altro possa venirvi in mente. Non cercava la chiave di un forziere, né la promessa di un domani migliore.
Niente di tutto ciò: aveva perso la Poesia.
La Poesia che sta nella risata di un bambino, dentro a un ramo d'autunno con un sola foglia ancora appiccicata, in quel minuto d'attesa che occorre per gustare un caffè, o nel gatto che vedeva tutte le mattine mangiare da un piatto di plastica sotto casa sua... non la vedeva più. L'aveva avuta, l'aveva vissuta... ma non riusciva più a trovarla. Cosa che, pensava, era decisamente più terribile rispetto a perdere una mano, un piede o un occhio. Specie per chi, come lui, aveva il cuore straziato. Per chi soffriva di quel male che tutti, in un modo o nell'altro, sperano un giorno di poter provare, perdere la Poesia, la propria umanità, l'essenza prima delle cose medesime, equivaleva un po' a svenire lungo quella strada che si stava sforzando di percorrere.

Prima perdere la cognizione di ciò che è intorno, come coprendo tutto con un velo maledettamente bianco. Non distinguere i contorni, sentire di colpo gli odori che non ci sono più, che sono svaniti. E passare, altrettanto rapidamente, da quell'assoluta immensità di bianco, al margine opposto della cognizione. 
Dall'arcobaleno delle cose al bianco; dal bianco al nero.

Fu in quel momento, quando meno se lo aspettava, mentre era assorto in queste riflessioni, che fu colto dallo stupore di veder finire la strada asfaltata, gli alberi innevati, il cielo senza umore. Era in cima, al valico, pronto alla discesa: e, verso quell'altro costone, nella valle che gli si stagliava dinnanzi agli occhi, vide uno spettacolo che non sapeva spiegarsi e che non avrebbe mai avuto il coraggio di raccontare definendosi sano di mente.
Il sole illuminava i campi coltivati che cominciavano a ingiallirsi, come in una primavera già inoltrata. Abbondanti erano le porzioni di maggese, in preponderanza rispetto al resto, dove le balle di fieno annoiavano gli spettatori a furia di farsi contare. Un ruscello veniva giù rigoglioso, ma non troppo: giusto quanto bastava per far girare, seppur lentamente, la ruota del mulino ad acqua. In lontananza, un tendone tutto rosso e bandierine variopinte, ed eco di grida infantili provenienti da un sogno, o forse da un ricordo lontano. Più vicino una masseria, simile a tante che si vedono nella regione centro - meridionale, collegata in qualche modo con il mulino.
Una figura si muoveva, avvicinandosi all'argine del fiumiciattolo. Non era un contadino, non ne aveva la corporatura... L'uomo che cercava la Poesia fece per avvicinarsi e iniziò la discesa; ma mise un piede in fallo, o forse si mosse troppo rapidamente, e inciampò. La caviglia doveva essersi contusa. Tentò comunque di trascinarsi il più possibile a valle, strusciando di sedere, come se fosse stato ancora sulla neve e a bordo di uno slittino. Non si trovava vicino quanto avrebbe desiderato, ma era tuttavia abbastanza da poter distinguere e capire. Quella figura che, accomodata sulla riva osservava il suo stesso riflesso nell'acqua era una ragazza, e più precisamente un clown del circo. La pagliaccina si sistemò un fiore appena colto color arancio sul cappello mezzo sfondato, si aggiustò il trucco controllando con cura l'effetto che sembrava fare, si tirò giù le maniche della camiciona prima arrotolate.

Una nidiata di fate nel frattempo aveva circondato l'uomo infilandogli in mano un taccuino e una matita apparsi da chissà dove. Una di loro, quindi, cominciò a battere un po' più forte le sue alette setate e si librò più in alto, finché non gli si trovò vicino all'orecchio.
"Avanti caprone, ce l'hai fatta... adesso scrivi!"
... ma fu inutile. Lui aveva già cominciato.