venerdì 30 ottobre 2020

Letter to you: nel nuovo disco, Springsteen contro Trump

 

La cosa più meravigliosa di Letter to you è che si tratta di un album che risponde a delle domande. Domande che Bruce Springsteen si pone da sempre; e domande che invece il Boss si poneva da tredici anni. Non è possibile infatti capire davvero questo disco se non facciamo cinque distinti salti indietro nel tempo.

Ottobre 2007, esce Magic: un album completo, una bella sintesi di tutte le tematiche che il Boss ha sempre affrontato. Dalle parentesi rabbiose alle immagini delicate, dai canti corali di impegno ai richiami rivolti a un’America refrattaria e appiattita. Eravamo agli sgoccioli dell’ultima presidenza Bush.

Gennaio 2009, è il turno di Working on a dream: un lavoro più leggero, la cui title track era stata lanciata alcuni mesi prima in supporto della campagna presidenziale di Barack Obama. Era un momento di grandi speranze e (si credeva) di passaggi epocali.

Marzo 2012, ecco Wrecking Ball (il disco di Springsteen cui sono personalmente più legato). Praticamente un concept album: il grande disco della grande crisi economica. Ritratti di squali e di lavoratori, infaticabili e schiacciati. Alcune speranze più o meno vane, ma soprattutto la risposta dell’orgoglio, nell’ora più buia vissuta fino a quel momento.

Di due anni dopo, nel 2014, è High Hopes: la storia non cambia, la rabbia cresce. Ci sono ancora alcuni sprazzi di luce, di speranza, che però non alterano un senso complessivo reso tanto più autorevole dalla riproposizione di un pezzo come The Ghost of Tom Joad.

Bisogna aspettare altri cinque anni per un nuovo disco e nell’aprile 2019 esce Western Stars: un lavoro meraviglioso, che tuttavia per stessa ammissione di Springsteen, è “solo” «un gioiello di disco... con travolgenti, cinematografici arrangiamenti orchestrali». Una serie di incursioni nel melodico e nel country che però somigliano più a un capriccio artistico dell’autore che al proseguo del romanzo americano targato Springsteen.

Perché il pubblico aspettava qualcosa in questo senso, e questo il Boss lo sapeva.

Per questo, il 23 ottobre 2020, è arrivato Letter to you. E Letter to you è la risposta a tutto.

Il sogno si è tramutato in incubo, gli amici se ne sono andati, la speranza si è praticamente esaurita. Per anni, per una vita intera, Bruce Springsteen ha cantato il sogno americano, il partire, l’arrivare, il farcela, la terra promessa cui tutti quanti puntavamo, e alla quale ci eravamo illusi di poter arrivare semplicemente prendendo un treno dei desideri. Bene: niente di tutto ciò è più possibile.

Siamo stati feriti, abbiamo pianto, ci siamo avvicinati gli uni con gli altri. Abbiamo pregato. E adesso abbiamo scoperto che pregare non basta. O perlomeno, che pregare non basta più.

Non perché non creda (più) in Dio, Bruce Springsteen. Ma perché anche pregare è diventato una merce di consumo. E da tutto ciò che viene venduto a buon mercato, oggi più che mai, bisogna guardarsi molto attentamente.

 

La scaletta dei brani, una discesa nell’anima del Boss

 

Già con One minute you’re here abbiamo, stese come i capitoli in un sommario, le linee tematiche di tutto l’album. Troviamo l’assenza di certezze, il guardarsi allo specchio e il non riconoscersi, la progressiva precarietà di tutte le cose. One minute you’re here, one minute you’re gone. Non a caso, a un certo punto del brano la melodia si trasforma in qualcosa di sempre più simile a un carillon; poi sfuma: quasi d’improvviso. E finisce la canzone, volutamente tronca, seguendo un’evoluzione dalla traccia di chitarra acustica iniziale il cui significato è fin troppo chiaro.

Segue la title track, e Letter to you è un brano che sembra scritto in ginocchio, con cui Springsteen afferma di voler mettere per iscritto tutte le cose che con il cuore ancora sente essere vere. Non ci dice però quali sono queste cose: intuiamo, quello sì, che nessuna verità ci sarà rivelata e che anzi assisteremo a una serie di contrasti (sole e pioggia, gioia e dolore, notti buie e mattini limpidi).

Con Burnin’ train la simbologia si fa più complessa; e questo è forse l’aspetto più intrigante di tutto l’album. Perché Springsteen è uno che le cose le ha sempre dette con precisione, chiare e nette. Ma in questo 2020 fatto di contrasti e di contraddizioni, di promesse deluse e di apprendisti stregoni pronti a sbucare da ogni dove, anche definire la verità (la sua verità) sembra essere diventato qualcosa di incredibilmente difficile. Con Burnin’ train ce ne sono tanti di contrasti, specie tra bianco e nero. Tra bianchi e neri. Abbiamo sentito il ragazzo del New Jersey cantare più volte e più volte di treni: treni che andavano in centro, treni di sogni e di speranze, treni provinciali per Tucson, treni che seguivano il corso del fiume, la notte e una serie infinita di eroi locali “minori”, trenini dell’amore dentro ai parchi-giochi. Questo invece è un treno in fiamme. È un treno di rabbia. Per salirci occorre una benedizione, che stavolta non si ottiene dalla luce né dalla grazia; ma dal sangue e dal marchio di Caino. Se anche uno non volesse scorgerci un accenno ai tanti movimenti in difesa delle minoranze che sempre più numerosi nascono negli Stati Uniti, il brano successivo è quanto mai eloquente: Janey needs a shooter è una ballata rock vecchio stile, bella e mai pesante, e parla di abusi. Abusi perpetrati da un medico, da un prete e da un poliziotto. Ma non si tratta una sottoscrizione ai #MeToo: questa canzone è stata scritta nel 1978. “Crazy Janey” era già allora un personaggio popolare del repertorio springsteeniano e, oggi possiamo dirlo, con lei il Boss aveva visto parecchio lungo.

Last man standing, con il suo lirismo di tasti e batteria, è probabilmente la più autobiografica delle tracce presenti e Springsteen non fa nulla per nasconderlo. Thrift-store jeans and a flannel shirt è un verso che contiene il ritratto di una generazione: il manifesto di chi partiva con abiti di seconda mano e una chitarra. Con questo brano il Boss ammicca fortemente al suo pubblico, sembra quasi voglia ricordare quale è stato il suo manifesto di partenza. E infatti con The power of prayer rende chiara la prima delle conclusioni cui è giunto, a quarant’anni dagli esordi: è importante pregare, ma più importante è fare. Non ci è bastato unirci nel dolore e nel terrore, con il nemico alle porte. Perché «il gioco è truccato e senza regole, e si gioca su un tavolo senza posta in una nave condotta da folli». Ciò che ci salva perciò è tenere uniti i cuori e saper pagare anche per chi gli altri. La preghiera, con il suo potere, si manifesta qui e ora. House of a thousand guitars ricalca ancora questi concetti; e cominciamo a renderci conto di una certa serie di ripetizioni che corre per tutto l’album: small-town bar dove la musica diventa vera; l’unione sincera delle persone che consente di accendere la fiammella. «We’ll rise together till we find the spark». È interessante notare come anni fa, nel pieno del sogno e con la terra promessa come punto di arrivo, visibile all’orizzonte, Springsteen dicesse invece che il fuoco di accende dalla scintilla, e che senza quella scintilla non c’è nulla. Quanto e come siano cambiati i tempi è più che mai evidente.

 

L’attacco di Springsteen a Trump

 

Nel cuore di Letter to you Springsteen non lesina critiche all’attuale presidente e anzi si può dire che gliele suoni di santa ragione. Come per la prima presidenziale di Obama salta fuori l’impegno politico; e infatti in Huose of a thousand guitars c’è un riferimento a un “clown criminale che ha usurpato il trono, e che ruba ciò che non potrà mai possedere”.

Ma il pezzo in cui Donald Trump è descritto con più ferocia è senza dubbio Rainmaker. Con un ritornello semplice e chiaro, fatto di rapidi esplosioni, scritto per essere ululato negli stadi, Bruce descrive l’arrivo in una terra dove non piove più da mesi di questo imbonitore che guarda caso sembra avere in tasca tutto ciò di cui la povera gente ha bisogno. Si può leggere nel verso «the house is on fire» un riferimento a Greta Thunberg e in generale alle proteste ambientaliste cui il presidente americano ha sempre risposto con insensibilità. Ciò che al Boss preme sottolineare è però come la speranza sia un prodotto di grande vendita tra i disperati; e soprattutto come la gente abbia bisogno di credere in qualcosa di chiaramente sbagliato. Questo concetto è approfondito con If I was a priest, in cui Springsteen tratteggia una storiella iconoclasta in cui Gesù fa la parte dello sceriffo e la Madonna vende palloncini benedetti. Al di là dell’impalcatura country, il messaggio è semplice: siamo sempre più in troppi a non fare la nostra parte, a mettere bocca e a occuparci di mestieri che non ci appartengono.

Un’ulteriore satira contro il presidente si vede nel penultimo brano, Song for Orphans, dove è delineato il punto di vista fuori luogo e fuori tempo di un ex generale confederato, che se la prende con il mondo e con il suo progressivo abbruttimento. Lì, dove i figli aspettano padri che non torneranno a casa e dove persino gli eremiti di professione sono in cerca di amici, non si può fare altro che aspettare il vecchio vagabondo Dog Man Moses. Anche qui, l’assonanza tra la parola tramp e il cognome del presidente Trump potrebbe proprio non essere un caso.

 

L’altra riva del fiume

 

Chiudono idealmente Letter to you due canzoni.

Ghosts in particolare sembra presentarsi come un validissimo singolo. E sembra anche il singolo che fa da seguito a Wrecking Ball, le risposte positive che dall’album del 2012 erano rimaste in sospeso.

A un primo ascolto si potrebbe credere, a torto, che anche questo sia un brano autobiografico. In effetti lo è, ma nella misura in cui è autobiografico per ciascuno di noi. I sogni che ciascuno di noi ha avuto sono rappresentati da quella bella immagine di stivaletti e speroni che una volta indossavi: ne senti ancora il picchiettare sul pavimento, passo dopo passo. Ma non sono mai arrivati da nessuna parte. Con questo pezzo la presa di coscienza che il sogno è esaurito è messa ancora una volta nero su bianco. Ma non è un problema. Perché, banalmente, sono rimasti i brividi. E io mi rendo conto che questi brividi sono il segno che ho ancora del sangue nelle vene, che sono vivo, che riesco a guardarmi da fuori, senza menzogne.

I fantasmi cui il titolo allude, dunque, non sono quelli che ci hanno lasciato. È ovvio che il Boss pensi comunque un po’ a Clarence Clemons e a Danny Federici (soprannominato the Phantom, casualità), giusto per citare due compagni di ciurma della E Street band che di certo gli mancano parecchio. Ma non è questo il punto: i fantasmi siamo noi, voi, gli altri che già si trovano sull’altra riva del fiume, vivi e uniti nella verità che la musica rivela. L’unione con gli altri, forse per la prima volta nella lunga carriera di Springsteen, è eminentemente spirituale e ha per figlia la vicinanza fisica con i propri simili; non il contrario.

È giusto quindi parlare di fantasmi, o meglio di spiriti. Ghosts siamo noi, ognuno di noi, denigrati e de-stimati dal mondo in cui viviamo. Ma pure destinati a trovarci, grazie a un artificio, a un’illusione non troppo diversa dal sogno. L’arrivederci di questo nuovo disco, I’ll see you in my dreams, è dunque un arrivederci agrodolce, colmo di suggestioni. Suggerisce che qualcosa della terra promessa sia ancora possibile, prossimo e reale, sebbene in un modo diverso da come la abbiamo sempre immaginata.

mercoledì 22 luglio 2020

La poesia e la merce - l'effetto Ferragni sugli Uffizi di Firenze


NCP, necessaria considerazione di partenza: viviamo in una società talmente miserabile che per ricordarci che esistono gli Uffizi di Firenze abbiamo bisogno di Chiara Ferragni.
Questo è il dato di partenza: prova ne sia che, con una foto scattata davanti alla Venere di Botticelli, l’effetto Ferragnez ha portato agli Uffizi un incremento di visitatori under 30 del 25% e rotti.

Ora, io non ho interesse ad accodarmi a questo dibattito più di quanto ne abbia per lo scrivere di cucina, un tema che non suscita il mio interesse e che non mi sforzo nemmeno di capire. Tuttavia, stamattina ho letto un pezzo de Linkiesta che stavo quasi reputando interessante. Questo prima che l’ultimo paragrafo lo facesse crollare miseramente ai miei occhi.

«Fossi Chiara Ferragni, la prossima foto da milioni di cuoricini me la farei in un museo qualunque d’un paese qualunque che non disprezzi la moda, l’unica forma d’arte che contribuisce al prodotto interno lordo e che, se si presta a fare da traino a commerci minori quali i biglietti d’un museo, deve pure prendersi gli insulti (...)»

Stop. Fermi tutti. Non ci siamo proprio.
Qui mi hanno proprio sanguinato gli occhi.
Dobbiamo decidere di che cosa stiamo parlando.
Non ho interesse e non ho competenza per parlare di Chiara Ferragni come non ne ho per parlare di moda o di marketing. Ma se devo parlare di società, di storia o di cultura allora qualcosina credo di poterlo (e di doverlo) dire anch’io.

Che cos’è un museo, in effetti? Raramente un museo nasce tale. Un luogo o un palazzo diventa museo, semmai, a una condizione e con un preciso obiettivo: che è quello di attestare qualcosa di un passato, di una civiltà. E una civiltà, di solito, si attesta in (pochi) modi diversi: attraverso la bellezza, attraverso una testimonianza non fraintendibile, attraverso messaggi veicolati in modo da risultare sempre comprensibili, nonostante lo scorrere del tempo appunto.

Io non capisco nulla di moda; ma non posso fare a meno di ammettere che certe sfilate abbiano in sé una loro suggestiva potenza. Non ne capisco nulla; ma non per questo nego che siano prive di significato, che non abbiano magari dei messaggi di fondo da comunicare. Se non ne avessero, d’altronde, non avrebbero assolutamente senso di esistere. Non ne avrebbero, perché nessuno andrebbe in giro con gli abiti delle sfilate addosso, e perciò nemmeno il significato di catalogo vivente si potrebbe adattare a certi generi di passerelle.

Dunque, se le sfilate sono portatrici di un qualche significato che in qualche modo parla del loro tempo, non vedo perché non debbano essere ospitate anche in un museo (perché no?): ciò non significa altro che sommare a suggestioni attuali suggestioni di ieri. Non ci trovo nulla di sbagliato.
Non è certo una novità, la “contaminazione” tra siti museali ed eventi mondani di una certa importanza. Sfilate di moda si sono tenute al Louvre, nella Valle dei Templi, persino agli Uffizi stessi.

Cosa diversa sarebbe però se i musei aprissero le loro porte a chiunque, a ogni genere di iniziativa.
Tiro fuori uno degli esempi citati dall’articolo di Linkiesta: anni fa i Della Valle sponsorizzarono di tasca loro alcuni imponenti lavori di restaurazione del Colosseo. Tolte le dovute considerazioni sul fatto che lo Stato italiano non sia in grado di prendersi cura di uno dei suoi beni più iconici, va bene che Della Valle paghi la restaurazione di un sito archeologico. Ha il diritto di proporsi almeno quanto lo stato ha il diritto di accettare i suoi soldi. E Della Valle ha pure, se lo desidera, il diritto di richiedere in cambio i diritti di sfruttamento dell’immagine del Colosseo per i suoi prodotti. Noi possiamo discutere sul fatto che lo Stato “svenda” a un privato tali diritti; ma dal momento che cede gli oneri di una costosa manutenzione ci può anche stare. Ciò che non è legittimo è che Della Valle organizzi una cena, tra le mura del Colosseo. E questo non tanto (e non solo) perché è una scelta di pessimo gusto, mangiare al chiaro di luna in un teatro dove, per divertimento, è stato versato tanto sangue e tanto a lungo. Ma per il fatto, appunto, che parlando del Colosseo parliamo di un museo.

Nel momento in cui un Della Valle si “appropria” del Colosseo a questa maniera, si rompe un muro invisibile, si sdogana la concezione che tutto si possa fare. A condizione di sborsar baiocchi. Allora non ci si può sorprendere se James Pallotta, il presidente dell’a.s. Roma, dichiara (scherzosamente?) che avendo il Colosseo quasi le dimensioni di un campo da calcio regolamentare sarebbe bello che la sua squadra un giorno ci giocasse una partita.

Anche questa può essere letta come una conseguenza semplicistica; ma mi si concederà che i ragionamenti di principio hanno tutti una forte impronta di semplicismo. I concetti per loro natura si riducono all’osso, quando è necessario spiegarli nell’essenzialità.

Arriviamo quindi al dunque. È importante che Chiara Ferragni abbia visitato gli Uffizi, postato le foto di rito sul suo instagram e, come conseguenza, invogliato diversi giovani a visitarli? Non è “importante” il fatto in sé: non abbastanza da farne scaturire un dibattito. Piuttosto, sono importanti i dettagli “laterali” dei quali non si è parlato. Perché, se accettiamo come abbiamo detto che i musei siano dei depositi di civiltà, e quindi dei luoghi che appartengono a tutti noi, allora è legittimo pretendere, questo sì, che il fattore Ferragni in relazione all’aumento degli ingressi sia stato casuale o quantomeno che sia stato un contributo offerto gratuitamente. Che la blogger milanese tramuti in oro tutto ciò che tocca è più vero e più attuale della leggenda di Re Mida; e certo non sarò io a mettere in discussione se questo sia o no “giusto” (secondo quali criteri, poi?).
Ciò che mi disturberebbe, e parecchio, sarebbe piuttosto scoprire che questa visita della Ferragni fosse stata concordata in precedenza con la direzione del museo, e che questo l’abbia remunerata per un paio di click. Questo sì, mi potrebbe infastidire.

Perché? Per una ragione molto semplice. Perché le leggi del mercato e dell’impresa non si possono applicare ovunque. Così come nessuno si aspetta che la Caritas diventi una multinazionale del settore alimentari, allo stesso modo è insensato pensare che il valore di un museo sia dato dal numero di biglietti che stacca ogni anno.

Molti anni fa un mio insegnante scrisse una relazione per il consiglio docenti del liceo che frequentavo, ragionando proprio sull’opportunità da parte della scuola di mantenere nel piano dell’offerta formativa tanti corsi extra-curricolari. Giacché i docenti che si occupavano di tenere tali corsi rappresentavano comunque un costo vivo, era (e credo sia tuttora) uso della scuola alzare una soglia minima di studenti partecipanti, e se questa non era raggiunta... il corso non prendeva proprio piede. Fin qui, tutto logico. Ciò che scrisse il mio professore, e che mi torna in mente oggi, era più o meno questo: attenzione a ragionare sulla quantità. Pur costretti a ragionare come un’azienda, noi siamo una scuola e ciò che ci deve premere è l’altezza delle vette che siamo in grado di raggiungere. Possiamo, se lo vogliamo, decidere di tenere persino un corso pomeridiano di numismatica medievale: se questo corso fosse seguito anche da un solo studente, ma così appassionato all’argomento da far diventare la numismatica medievale la ragione della sua vita, ecco, i soldi per tenere quel corso noi come scuola non li avremmo certo sprecati.

Non è accettabile, per un’entità quale un museo, inseguire disperatamente parametri di performabilità, nemmeno parlassimo di una botteguccia qualsiasi.
Non lo è, e basta. A meno che decidiamo, adesso, che nella matematica della nostra esistenza 1+1 non potrà mai fare 3; e che gli unici calcoli possibili si svolgano solo tra numeri interi e solo tra i segni delle quattro operazioni principali: +, -, x, : .

domenica 29 marzo 2020

Coronavirus, dall'Albania Edi Rama invia 30 medici in Italia



"Lo so che a qualcuno qui in Albania sembrerà strano che trenta medici e infermieri della nostra piccola armata in tenuta bianca partano oggi per la linea del fuoco in Italia. So che trenta medici e infermieri non rovesceranno il rapporto tra la forza micidiale del nemico invisibile e le forze in tenuta bianca che lo stanno combattendo nella linea del fuoco da quella parte del mare. Ma so anche che anche laggiù è oramai casa nostra: da quando l’Italia e le nostre sorelle e i fratelli italiani ci hanno salvati, ospitati e adottati in casa loro quando l’Albania bruciava di dolori immensi. Noi stiamo combattendo lo stesso nemico invisibile; e le risorse umane e logistiche della nostra terra non sono illimitate. Ma oggi noi non possiamo tenere le forze di riserva in attesa che vengano chiamate, mentre in Italia (dove si stanno curando negli ospedali di guerra anche albanesi feriti del nemico) hanno un enorme bisogno di aiuto. È vero che tutti sono rinchiusi dentro le loro frontiere. E anche Paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri. Ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi, e neanche privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all’Italia che gli albanesi e l’Albania non abbandonano mai l’amico in difficoltà.
Questa è una guerra dove nessuno può vincere da solo. E voi, cari membri coraggiosi di questa missione per la vita, state partendo per una guerra che è anche la nostra. E l’Italia la deve vincere - e la vincerà questa guerra: anche per noi, e anche per l’Europa e il mondo intero". 


Questo il messaggio che il primo ministro Edi Rama ha pronunciato, prima in albanese e poi anche in italiano, di fronte alla squadra di trenta medici e infermieri partita da Tirana per dare man forte alla sanità lombarda in difficoltà.
Un messaggio pregno di consapevolezza e di tanta dignità: Rama sa perfettamente che trenta operatori sanitari non sono che un piccolissimo contributo davanti ai numeri dell'emergenza mondiale, ancora tutta in escalation.
Per chi frequenta le chiese e ha qualche nozione dei vangeli, tuttavia, questo piccolo aiuto dovrebbe ricordare qualcosa: l'accostamento con la vedova povera nel Tempio, che offriva alla questua la sua unica moneta, è fin troppo naturale...

Senza farci cogliere da fin troppo facili sentimentalismi, ma pure senza sottovalutare l'apporto dell'Albania alla tragedia che viviamo ogni giorno a causa del coronavirus, è ovvio che questa mossa di Edi Rama ha un chiaro significato politico. Come tutto, del resto.
Il Paese delle Aquile, solo lo scorso ottobre 2019, ha infatti subìto una cocente delusione quando il vertice sull'allargamento dell'Unione Europea nei Balcani ha siglato un brusco stop alle aspirazioni di Albania e Macedonia, che agognavano l'ingresso nella UE.

La candidatura dell'Albania, in realtà, era già stata presa in esame e sembrava avere serie possibilità di poter entrare tra i 27... Fu la Francia, in sede di Consiglio Europeo, a porre un chiaro veto al riguardo. Vuoi per un miglioramento dei suoi rapporti con Mosca, vuoi per un (non dichiarato) timore che l'allargamento dei confini comunitari a Tirana avrebbe avuto delle conseguenze sulle rotte e sui cicli migratori.

In questo senso la mossa dell'Albania, che con umiltà riconosce di non essere un Paese ricco, ma che pure sottolinea come Paesi ricchissimi (e membri della stessa UE) si stiano voltando le spalle a vicenda, va letto come il tentativo di riannodare le fila di un percorso interrotto. Un voler rimarcare che quei valori di solidarietà e di fraternità internazionale sono molto sentiti da Rama e dal suo popolo.

Non si tratta probabilmente di una frecciatina a Macron; ma che il ruolo e le intenzioni del presidente francese debbano definirsi una buona volta è più che mai sotto gli occhi degli osservatori.
La Francia non può fare e disfare come più piace al suo governo, senza mantenere una linea di continuità tra i giorni. Ma è indubbio che il voto di Parigi pesi, e molto, tra i 27.
 Sia che si parli di Albania, sia che si parli di eurobond.

Edi Rama ha fatto la sua mossa. Per tutto il resto, la palla passa (da tempo) dall'Eliseo.

sabato 28 marzo 2020

Qualcuno era Europeista

L'attuale pandemia del coronavirus sta distruggendo, tra le altre cose, anche quel poco che c'era dell'Unione Europea. La Comunità, al momento della prova più dura, si sta dimostrando disunita come non mai.
Le dichiarazioni del premier olandese risuonano ancora nella mia testa: davvero non posso credere che abbia espresso un concetto tanto sconcertante.
Ho già avuto in passato motivo di temere che tutto fosse ormai lì lì per finire: l'ho temuto ai tempi del tracollo finanziario greco; l'ho temuto quando la Germania espelleva i profughi siriani; l'ho temuto durante la Brexit, evento questo che mi ha reso triste da piangere, quasi.

Victor Hugo una volta disse: "Non siamo più inglesi né francesi né tedeschi. Siamo europei. Non siamo più europei, siamo uomini. Siamo l’umanità. Non ci resta che abdicare dal più grande degli egoismi: la nostra patria".
Fa rabbia - fa tanta, tanta rabbia - rendersi conto che oggi, nell'ora più buia, al più grande degli egoismi noi continuiamo ad aggrapparci, come dei bambini timorosi, certi dei loro diritti e delle loro ragioni perché incapaci di osservare le cose con una prospettiva più lunga.

Malgrado tutto, però, io mi sento europeo. Voglio sentirmi europeo. Io sono europeo.
E questo canto del cigno per un' Europa Unita, che ho vomitato fuori in una notte, indegnamente, prendendo a prestito la base di un grandissimo brano di Giorgio Gaber, non avrei mai desiderato scriverlo.


Qualcuno era europeista perché era nato a Berlino.
Qualcuno era europeista perché l'Austria, l’Italia, la Francia, la Germania... la Svizzera no.
Qualcuno era europeista perché vedeva l'euro come una promessa, Bruxelles come una poesia, l’Europea unita come il paradiso dei popoli.
Qualcuno era europeista perché si sentiva solo.
Qualcuno era europeista perché aveva avuto un’educazione troppo francofona. Ahi ahi ahi ahi
Qualcuno era europeista perché i bandi della regione lo erano, quelli della provincia pure, il progetto Erasmus non ne parliamo: lo erano tutti.
Qualcuno era europeista perché glielo avevano detto.
Qualcuno era europeista perché non gli avevano detto tutto.
Qualcuno era europeista perché prima, prima prima, era liberal-socialista.
Qualcuno era europeista perché aveva capito che la Commissione andava piano, ma lontano.
Qualcuno era europeista perché De Gasperi era una brava persona.
Qualcuno era europeista perché LePen non era una brava persona.
Qualcuno era europeista perché era ricco ma per il sociale.
Qualcuno era europeista perché ascoltava Barenboim e si commuoveva alla nona di Beethoven.
Qualcuno era europeista perché era così affascinato dalle stelle che aveva bisogno di riconoscersi in dodici di esse.
Qualcuno era europeista perché amava tanto gli spagnoli che voleva mollare tutto e aprire un locale da loro.
Qualcuno era europeista perché non ne poteva più di vivere in Italia.
Qualcuno era europeista perché trasferendosi dal Belgio in sù otteneva l'aumento di stipendio.
Qualcuno era europeista perché gli Stati Uniti d'Europa oggi no, domani è ancora presto, ma dopodomani sicuramente.
Qualcuno era europeista perché, la CECA, Schenghen il trattato di Maastricht cazzo.
Qualcuno era europeista per fare rabbia a chi parlava ancora della lira.
Qualcuno era europeista perché guardava solo La7.
Qualcuno era europeista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione.
Qualcuno era europeista perché voleva far circolare tutto. Minchia.
Qualcuno era europeista perché non conosceva le guardie doganali, i frontalieri e affini.
Qualcuno era europeista perché aveva scambiato il manifesto di Ventotene per il vangelo secondo Spinelli.
Qualcuno era europeista perché era convinto di avere dietro di sé l'intera NATO. Oh cazzo.
Qualcuno era europeista perché si sentiva più europeo degli altri.
Qualcuno era europeista perché credeva in una Banca Centrale Europea.
Qualcuno era europeista malgrado ci fosse la Banca Centrale Europea.
Qualcuno era europeista perché non c'era niente di meglio.
Qualcuno era europeista perché abbiamo avuto il peggior parlamento nazionale d'Europa.
Qualcuno era europeista perché il debito peggio che da noi, solo la Grecia.
Qualcuno era europeista perché non ne poteva più di vent'anni di governi berlusconiani, incapaci e mafiosi.
Qualcuno era europeista perché Platone, Federico di Svevia, Cristoforo Colombo, Shakespeare, Victor Hugo, Gaudì eccetera eccetera eccetera
Qualcuno era europeista perché chi era per la storia era europeista.
Qualcuno era europeista perché non sopportava più quella piccola cosa gretta che ci ostiniamo a chiamare nazionalismo.
Qualcuno credeva di essere europeista, e forse era qualcos'altro.
Qualcuno era europeista perché sognava una libertà diversa da quella dei due blocchi.
Qualcuno era europeista perché credeva di poter essere libero e felice, solo se avevano il diritto di esserlo anche gli altri.
Qualcuno era europeista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo. Perché sentiva la necessità di una diversità comune.
Forse era solo un ideale, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare radicalmente il modo di pensare, la convinzione che insieme si sarebbe cambiato per sempre un modo di vivere.
Sì: qualcuno era europeista perché con accanto queste diversità si poteva essere molto più di sé stessi. Si diventava tante storie in una.
Da una parte la personale radice di ciascuno, fatta di panorami, di ricordi, di odori... e dall'altra, il senso di appartenenza a un unico seme, pronto finalmente a scostare le ultime zolle di terra, per presentare il suo germoglio alla luce...
Sì, sono molti i rimpianti. Forse molti di noi hanno semplicemente preso i frutti della vigna... senza avere mai avuto alcuna intenzione di coltivarla.
E ora? Ora ci sente soli come non mai. Da una parte ciascuno, rinchiuso in sé stesso, che attraversa rigidamente la limitatezza del proprio recinto quotidiano; e dall'altra, quel germoglio: che non ha più nemmeno l'intenzione di fiorire, perché ormai il seme si è rinsecchito.
Ventisette miserie per un solo guscio vuoto.

lunedì 23 marzo 2020

Disinformazione e covid19: come la politica entra nel virus

Le fake news rendono più forte il coronavirus (e la Russia) ... e sempre più debole l’Europa

"dezinformatzija" (дезинформация): tattica russa risalente al 1923. La parola disinformazione fu usata dal KGB per indicare «la manipolazione del sistema di intelligence di una nazione attraverso la somministrazione di dati credibili ma fuorvianti».

… Perché ho scritto la definizione di disinformazione nella strategia adoperata storicamente dal KGB? Perché ci sono alcune cose che non mi tornano… e non mi riferisco tanto alla crisi planetaria, che è evidente, quanto a diverse distorsioni che vedo nel mondo dell’informazione - tanto quella ufficiale quanto quella sul web, a proposito del caro amico CoronaVirus.

La paura che viviamo oggi a causa di questa pandemia è purtroppo rafforzata da una serie di notizie false e di appelli pieni d’odio che un po’ tutti, ogni giorno, finiamo per trovare sugli schermi dei nostri cellulari.
Perché il mio ragionamento sia chiaro a tutti, devo riassumere la storia e il decorso di certe fake-news create a regola d’arte che negli ultimi anni hanno modificato la storia globale. Noi oggi sappiamo, in maniera indiscutibile, che una società russa ha inficiato l’ultima campagna presidenziale americana. Lo sappiamo, nel senso che abbiamo le prove che una manipolazione psicologica su larga scala c’è stata: attraverso la creazione di migliaia di profili falsi sui social network che hanno diffuso notizie capziose e fuorvianti, con diverse tecniche (proprie, appunto, dei meccanismi della guerra psicologica e dell’intelligence).

Mi fermo un istante per ricordare quali sono i bersagli tipici di ogni populismo: i media mainstream, i politici, i lobbisti, i giudici, i burocrati e tutto ciò che è establishment in generale.
Ricordato questo aim, stampato nella nostra testa come un segnale di allerta, possiamo proseguire.

Nella campagna pro Trump di tale società russa, solo su Facebook sono stati attivamente impiegati 470 account che hanno prodotto un totale di 80'000 post, raggiungendo almeno 29 milioni di profili in maniera diretta - ma si stima che gli utenti raggiunti in assoluto siano stati circa 126 milioni, a fronte dei 140 milioni di elettori nel sistema americano.
Ovvio, molta di quella roba era palesemente spazzatura e tanta gente sicuramente non gli ha dato peso. Ma il punto è che sono stati pochi, pochissimi anzi, i post che erano diretti endorsement per Trump. Chi ha studiato il tema sa che su Twitter, con un numero maggiore di profili controllati e di bot che ne hanno fatto girare i tweet, sono stati messi in circolazione quasi un milione e mezzo di contenuti… ma solo per l’8% erano tweet politici.
Questo è un dato importante.
La vera disinformazione lavora solo per l’8% direttamente al suo obiettivo. Il restante 92% del lavoro si focalizza su una strategia diversa. Quale? Quella di attaccare media, politici, lobbisti, giudici, burocrati e tutto ciò che è establishment… in maniera molto, molto, molto indiretta.
Prendiamo come esempio la pagina fb “Figli di Putin”. È una pagina satirica, spesso divertente: la seguo anche io. Non ho nessun elemento per affermare che sia una pagina nata appositamente per plasmare le opinioni degli utenti in maniera indiretta. Ma che svolga una accurata promozione dell’attività del Presidente russo è indiscutibile; e pur sotto la maschera della satira, tale promozione avviene con gli stessi meccanismi della disinformazione.
Figli di Putin, Pastorizia Never Dies, Degrado Post Sovietico e quante altre ve ne vengano in mente… sono pagine i cui post, al 92% (?) non sono politici. Utilizzando l’ironia fanno leva su una serie di “anti-valori” che per una serie diversa di ragioni, spesso solo per gioco, ci sentiamo di poter condividere o di apprezzare lateralmente. Insomma: il burino di paese con la tuta dell’adidas strafatto ci fa ridere… così come ci fa ridere l’impresa di costruzione di zio Pino o de mi cuggino, che non hanno le scale e si inventano sistemi pericolosi per ovviare alle loro necessità… il contadino che si fa il bagno in un bidone… la scorta di birra Finkbrau, perché siamo stati tutti ragazzi con pochi soldi in tasca… la mega-braciolata riciclando in maniera povera ma intelligente rottami d’auto o attrezzi di campagna…: questo intendo per apprezzare lateralmente. Sono contenuti che ci fanno sorridere. Solo in maniera minore, all’8%, ci si propongono post più diretti. Uno contro Renzi “presidente che non è stato mai eletto”, uno dove Putin fa il gentiluomo porgendo il braccio a un’anziana Regina, uno di Di Maio che ripetendo uno stesso concetto finisce per contraddirsi, uno di Putin pronto a risolvere una crisi internazionale… insomma, avete capito quello che voglio dire.

Qual è la connessione tra gli obiettivi della disinformazione e quei meme molto stupidi ma apparentemente innocui? La connessione c’è. Se ci pensate, molti di quei meme usano locuzioni come “Ma tu non sei studiato, quindi…”; “Quando ti dicono di fare, ma…”; e via discorrendo. Questo modello di comunicazione finisce per creare nella mente di chi legge una dissonanza che, in un certa misura, sdogana i bassi istinti, l’ignoranza, la faciloneria e l’incompetenza. Così facendo, ci fa sentire tutti più vicini, più semplici, più veri. E, alla lunga, tale strategia comunicativa ha dato anche a quelle pagine un ruolo di “media company”, in un certo senso. Perché, tra una cazzata e l’altra, diffondono delle notizie: Putin che risolve una crisi internazionale solo con la sua determinazione, in confronto ai governanti europei che incespicano con le loro leggi, è una notizia. E noi, lettori di Figli di Putin, di Degrado e di Pastorizia, piacevolmente narcotizzati da tutta quella serie di post divertenti che ci sono sempre piaciuti, in una certa misura finiamo per dare credito a quella notizia. Ci convinciamo che abbiano un certo credito, le frasi che troviamo su quei meme, e per tante ragioni!
Poiché ci divertono, ci abituiamo a esse; e poiché ci siamo abituati, finiamo per fidarci di ciò che dicono. È in questo modo che il messaggio politico, quello che riguarda solo l’8% di quei post, piano piano ci avvolge, ci permea, ci scende in profondità senza che ce ne accorgiamo: e noi finiamo per condividerlo. Per condividerlo; o quantomeno per ammettere che abbia delle ragioni.

È da questo genere di prossimità con contenuti inquinati che poi nascono le fake news, diciamo così, “classiche”: quelle dei profili che diffondono notizie false partendo da dati reali, spesso senza una reale consapevolezza da parte dell’utente che le ha prodotte.
È piuttosto indicativo il caso di un cittadino americano di nome Eric Tucker. Tucker, in piena campagna presidenziale, ha creato da solo il collegamento mentale tra un certo numero di bus turistici nella sua zona (da lui ritenuto insolito) e una manifestazione anti-Trump. Cosa ha fatto, dunque? Ha scritto un tweet affermando che i pullman visti vicino casa sua erano pieni di manifestanti pagati (da Hillary, che in questo modo creava ad hoc degli eventi contro il suo rivale). E in effetti i “manifestanti” erano stati affittati… ma da Tableau, una società di software, per riempire una hall in occasione di un suo congresso. Sarebbe bastato andare a chiedere a uno degli autisti dei bus cosa ci facessero lì. Ma il germe della disinformazione, dell’odio per l’establishment, era ormai tanto radicato da non far nemmeno prendere in considerazione al povero Tucker la possibilità di porsi una domanda così banale.

Perché ho fatto questo pippone? Perché, dopo Trump, si ha avuto negli anni il forte dubbio, poi diventato sospetto fondato da parte dell’autorità giudiziaria, che fondi russi abbiano finanziato la Lega in Italia. Sembra lontana anni luce, ma l’indagine sui 65 milioni di dollari grattati via da una fornitura di petrolio e sulla mediazione di Savoini è piuttosto recente. Se uno pensa al gravissimo dissesto finanziario della Lega Nord è quantomeno curioso il dispendio di energie (e di liquidità) passato negli anni attraverso la macchina elettorale dei social: la famosa Bestia che Salvini, nei suoi mesi da vicepremier, ha peraltro accollato alle casse del suo ministero come spesa di cancelleria costa dai 44 agli 84mila euro al mese (a proposito: da quando non sta più al Viminale, le spese le paga la tesoreria del gruppo a Palazzo Madama. Ancora soldi pubblici, tanto per dire).

Visto e considerato il caso americano e il caso italiano; e visto e considerato soprattutto che tutti i partiti sovranisti in Europa stanno conoscendo una renaissence impensabile fino a pochi anni fa; è legittimo domandarsi se dietro a tanti contenuti che passano ogni giorno per gli schermi dei nostri cellulari non ci sia la lunga mano russa.

Appena una settimana fa un rapporto del Servizio europeo per l'azione esterna (European External Action Service - EEAS), che per chi non lo sapesse è una sorta di mega-ministero degli affari esteri europeo, dotato di suoi analisti e di una sua intelligence, segnalava alle istituzioni una casistica di almeno 80 (ottanta!) contenuti diffusi nel web e nei social dal Cremlino per creare disinformazione legata al Coronavirus, aggravando la crisi fiduciaria dei cittadini europei nei mercati e nelle istituzioni occidentali. Tale rapporto avrebbe dovuto essere riservato… ma, come spesso accade, un giornale è riuscito a pubblicarlo. Nel caso specifico, il Financial Times (una fonte che credo possiamo considerare tutti attendibile).




Allora, ecco: di fronte a un video come quello del medico che tenta di smontare i dati relativi ai decessi per covid19, io un paio di domande me le faccio.
Il video parte da una considerazione razionale e in una certa misura ragionevole: se consideriamo il numero dei morti per coronavirus attendendoci ai dati dei soli ammalati gravi (e questo è abbastanza vero, specie per le regioni del nord) avremo un dato percentuale di decessi molto alto che spaventerà qualsiasi lettore. Ma che non corrisponde alla verità, poiché non c’è mai stata una mappatura completa della diffusione del virus, casa per casa, nemmeno in zone limitate.
Ciò che non mi convince, e che arriva tra il secondo e il terzo minuto, è l’attacco sperticato ai politici e alle istituzioni. Che poi, ai politici e alle istituzioni: ai politici e alle istituzioni non di centro-destra. Malgrado dica “ce l’ho con i politici di tutte le fasce” nomina esplicitamente Zingaretti, che ha accorpato il Forlanini al San Camillo (cosa diversa dal tanto spesso letto in giro “Zingaretti je sta bene che c’ha er coronavirus perché ha chiuso il Forlanini”); ma mai i governi lombardi che da almeno vent’anni (Formigoni 1, 2, 3, Maroni, Fontana) promuovono e investono nella sanità privata a scapito di quella pubblica.

Il video di quel medico è stato per me illuminante, perché come tono, come tipo di comunicazione, non ho potuto non accostarlo alla lettera aperta pubblicata sabato dal cosiddetto “Comandante Alfa”, uno dei primi responsabili del GIS. Grazie ai poteri infiniti della rete, non poteva diventare ulteriormente un mito il primo capo delle “teste di cuoio” dell’arma. Se poi hai una pagina Facebook piena di foto tue con il mefisto nero sempre in testa e di frasi che richiamano all’orgoglio e alla resistenza in battaglia, beh, chiaramente un tuo pubblico te lo crei. Sono rimasto sconcertato dalla lettera delirante di questo ex carabiniere che, “non potendo più tacere”, piange i tanti morti dell’Alta Italia, correda il tutto con le foto strazianti dei camion militari che tutti sappiamo carichi di bare e… e poi che fa? Lancia un appello, si direbbe; ma è quasi un’incitazione alla rivolta, all’eversione.
I decreti non servono più a nulla, sono confusi, servono a indebolirci e non a rinforzarci”; se la prende con i politici (ma solo quelli vicini a centri sociali e sardine); con l’Europa (ovviamente) e anche con la Chiesa (ma in maniera più morbida, da buon cristiano).
Che cosa ho voluto dimostrare? Forse niente. Forse tutto. Stiamo attraversando una pagina di Storia. La situazione è drammatica, dal punto di vista umano. Stiamo pagando in termini di vite un prezzo altissimo; e quando la crisi sanitaria si sarà allontanata, a questo prezzo seguirà un contraccolpo terribile sulla nostra economia e dunque sulle nostre vite. E non c’è niente che noi possiamo fare. Proprio niente. Vale poco disperarci fin da subito, così come il tentare conti in tasche che sono irrimediabilmente già bucate. Non ho parole di speranza da infondere, perché temo che non ce ne siano. Tuttavia c’è qualcosa che ancora ci è dato di difendere, ed è un nostro preciso dovere il difenderlo: l’ideale europeo.
Quell’Europa spesso così lontana da toccare, e che nei momenti più avvilenti non abbiamo sperimentato come speravamo. Quell’Europa che forse, alle volte, ci ha deluso. L’Europa unita: si tratta di un sogno “così delicato che solo a pensarlo si potrebbe spezzare”. Ma, con tutte le sue pecche e i suoi difetti, l'ideale europeo è stato ed è ancora un faro di civiltà e di speranza per tutti i popoli liberi della Terra. E in nome di questo ideale, di questo sogno, di questo faro, io rifiuto categoricamente di lasciare mano libera a coloro che, con azioni e discorsi serpentini, tentano di distrarci, di metterci gli uni contro gli altri, di dubitare della nostra storia e del nostro futuro comune. Oltre all’attacco del virus ce ne è un altro, ugualmente invisibile e insidioso: ed è l’attacco di chi fa di tutto per istillarci il dubbio, di chi con astuzia ci vorrebbe convincere che siamo soli, che non abbiamo scelta se non di affidarci a nuovi amici, abbandonando quelli vecchi. Nei giorni scellerati della quarantena, la nostra lotta deve essere soprattutto mentale. Se il rischio del virus si può ridurre con le accortezze e con il buonsenso, solamente non cedere alla paura e alla paranoia può salvarci dalla tentazione di cadere tra le braccia di chi, con false lusinghe, oggi si professa nostro amico. Non è solo una convinzione politica, che potreste dirmi essere opinabile: non cadere nella macchina propagandistica russa significa non declinare la precisa responsabilità culturale e storica che per nascita ognuno di noi ha. Perché, se il principio della coesione che da oltre settant’anni, come europei, abbiamo scelto, dovesse cadere, ne prevarrebbe un altro, fatale per ogni ordine civile nel mondo.
È a questo proposito che oggi mi sono messo a scrivere. Io non credo che sia un caso se le mascherine e gli altri materiali sanitari provenienti dalla Cina sono stati fermati alle dogane della Repubblica Ceca e della Polonia. Non credo sia un caso che, immediatamente dopo questo scandalo internazionale, dopo questa vera e propria ruberia consumata sotto gli occhi inermi di tutta una Comunità Europea egoista e impotente, ogni Stato indaffarato con la propria emergenza, proprio Putin si sia fatto avanti tendendoci una mano. Possiamo accettare il suo aiuto; non dico di no. Ma solo con razionalità. Non dobbiamo farci illusioni su cosa stia succedendo nella nostra casa, già da tanti anni. Appelli e dichiarazioni come quelle di quel medico, o come quelle del comandante Alfa, non sono che il prodotto di un bieco populismo che spera di ridurre le complessità del mondo moderno a un messaggio di ribellionismo e di odio, che non hanno niente a che fare con i nostri veri valori. Quei valori di unità, di solidarietà e di armonia che sono riversi nel cerchio di dodici stelle su fondo blu, nei quali varrà sempre la pena credere, malgrado i tempi e le indiscutibili avversità che attraverseremo.

Concludo questo ragionamento con parole che non sono mie. Un anno fa, di questi tempi trovavo in cantina il memoriale di guerra di mio nonno. Tra quelle pagine, ho letto la testimonianza dei soldati italiani arrestati dai tedeschi dopo l’8 settembre e tradotti nei campi di concentramento in Polonia. Sebbene avessero offerto il ritorno in Patria a quanti di loro avrebbero accettato di servire la repubblichina di Salò, quasi tutti gli italiani preferirono la prigionia alla collaborazione.
“In questo rifiuto è racchiuso il contributo da essi offerto alla guerra (...) nei campi di deportazione quegli uomini attuarono una Resistenza difficile: la resistenza al freddo, alla fame e al terrore. Restò loro la vittoria su sé stessi (...) il miglior modo per conservare intatta nelle condizioni più avvilenti la propria dignità umana”.

Dalla comodità delle nostre case, il compito che ci spetta non è troppo diverso. Calmi, saldi e uniti in questo momento di tribolazione, con troppi giorni bui ancora davanti, tutto quello che possiamo fare è sondare la rete resistendo alle menzogne.
Perdere del tempo a smascherare certe comode menzogne, a fare fact-checking, a diffondere la verità, deve essere oggi, e tanto più oggi, nostra responsabilità morale. Non solo e non tanto perché siamo nati in un’Europa libera e pacifica. Ma perché apparteniamo alla razza umana. Perché viviamo in quella cosa, a volte imperfetta, che si chiama civiltà. E se voltiamo la testa dall’altra parte, se pensiamo che gli attacchi alla civiltà non ci riguardino, se pensiamo che non stia a noi difendere chi ci è vicino dal virus della disinformazione... allora abbiamo un problema molto più grave del covid19. Allora siamo già stati contagiati dalla più pericolosa delle pandemie.