lunedì 13 marzo 2017

Poesie sparse... 52 - Salgariana #1


Salgariana #1 

I tropici in trionfo, gli uragani 
hanno sfondato ormai tutti gli scafi 
così non resta loro che danzare 
violentemente idioti e tristi e soli 
sopra lo specchio infranto del mio mare. 
Cosa è rimasto, cosa sopravvive? 
La tigre forse - ciò che non si doma,
che pure alla pietà ruggisce uccisa. 
La tigre - e rossa o bianca non importa:
uno è il suo sguardo, identica la caccia. 
... e la sua caccia in fondo è lo svenire 
ogni avversario - pecora o fucile,
è un dimostrare intatto che ferita 
vale cento carogne, che sfinita 
può far tremare ancora la paura. 


mercoledì 1 marzo 2017

Poesie sparse... 51 - Salgariana #2


Salgariana #2

Al sud del tuo arcipelago scomposto
dove veleggia e impazza un'altra estate
resisto ancora, Mompracem perduta
invasa da quei venti rumorosi
del nord che alle passioni non riservano
più fughe o traiettorie d'abbordaggio.
Le scimitarre esauste altri rubini
non bramano, ma perle sovrapposte
semmai - dove è impossibile specchiare
quella che l'orizzonte mi impedisce.
La sola che l'oltraggio intenerisce.
Tu: il mio dolore vivo, tumefatto.
Tu: il terremoto che non ha epicentro.


mercoledì 22 febbraio 2017

La politica matrimoniale - racconto breve sulla scissione del pd

il testo seguente, di fantasia, è proprietà intellettuale esclusiva del sottoscritto Michele G. Picozzi, che ne è l'unico autore.

Questo racconto satirico è per forza di cose ispirato alla scissione attualmente in atto nel Partito Democratico.
Ogni riferimento a fatti o persone reali, tuttavia, è da ritenersi casuale e quindi non voluto.

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La Politica Matrimoniale 
- racconto breve -
Dedicato ai compagni; quelli "veri"... 


Massimo si svegliò parecchio urtato quella mattina. Gli atteggiamenti di sua moglie negli ultimi giorni lo stavano snervando.
Non andava bene, non andava affatto bene che lui tornasse dal lavoro a sera inoltrata e che trovasse ad aspettarlo solo un frigo vuoto.
Si sentiva trascurato. Trascurato e offeso. Trascurato, offeso e ferito.
Era arrivato il momento di sputare tutto il veleno che aveva accumulato nelle ultime settimane, di mettere le carte in tavola.
Quello che avrebbe dovuto essere sarebbe stato.
Cercò con i piedi le pantofole a occhi chiusi, si stiracchiò e, alzatosi, si diresse verso la cucina.
Sua moglie stava finendo di fare colazione. Aveva preparato il caffè. Con la moka piccola. Massimo non dubitava che ormai fosse già maledettamente vuota.
- Ben svegliato - lo salutò Doriana.
- Buongiorno - rispose laconico lui.
Prese in mano la moka e la scutugliò appena. Non ebbe bisogno di avvicinare il beccuccio alla tazzina per scoprire, come d'altronde sospettava, che sì, era già stata svuotata.
Non riuscì a trattenere un verso istintivo di insofferenza.
- E questo che cos'era? - gli domandò Doriana con un filo nel tono della voce intessuto per metà di disappunto e per metà di curiosità.
Massimo restò in silenzio e prese a fissare il piccolo televisore all'angolo del cucinino, acceso, che passava il tg della mattina.
- Allora? Che cosa hai? - insistette Doriana.
Massimo continuava a fissare le immagini che scorrevano sullo schermo. Il primo ministro, con quella sua aria tra il flemmatico e lo scocciato, ribadiva gli stessi concetti che aveva in bocca da settimane: l'opportunità politica, il momento storico, la volta buona per dare una scossa alla situazione internazionale...
- Insomma? - chiese sua moglie per la terza volta.
Massimo a quel punto scosse la testa.
- Niente. Pensavo al presidente del consiglio.
Lei lo guardò curiosa, presa alla sprovvista.
- Al presidente del consiglio? È per colpa sua che digrigni i denti già di prima mattina?
- Proprio così. Perché, c'è qualcosa di strano?
- No, no. Figurati.
Massimo tornò a guardare il televisore con aria un pochino più convinta.
- Già - ripeté, come a convincersi della scusa che aveva appena partorito:
- È proprio uno stronzo.

***

- No, signora Speranza, non dico che non deve annaffiare gli oleandri sulla tangenziale. Solo non capisco perché deve farlo dal terrazzo di casa sua.
Domandò Massimo alla malefica vecchina durante la riunione di condominio.
- Mi scusi, sa, ma io ho una certa età. Che cosa pretende, che vada ad annaffiarli personalmente uno ad uno, scendendo in strada? Mi ci vorrebbero... quante bottiglie di plastica? Lo sa lei quanto è distante la fontanella più vicina?
- Signora, io non metto in dubbio le sue difficoltà e non sto suggerendo questo. Ma questa sua "abitudine" potrebbe diventare pericolosa, se ne rende conto?
- Questo non lo credo proprio, giovanotto. Io annaffio gli oleandri solo dopo le ventidue, quando la strada è chiusa al traffico. Non vedo come potrebbe rappresentare un pericolo per qualcuno.
- Va bene; diciamo allora che potrebbe diventare "fastidioso" per chi passeggia davanti quel muro a piedi. Per me che torno sempre dal lavoro a quell'ora, che spesso e volentieri mi scordo della sua premura nei confronti degli oleandri e che, pertanto, mi ritrovo tante volte a subire una doccia non richiesta.
- Giovanotto, se lei non sta attento non è un mio problema. Il regolamento comunale dispone che si dia acqua alle piante solo dopo una certa ora; e io questa regola la rispetto in pieno. Se pure mi limitassi a bagnare solo i fiori del mio terrazzo lei, distratto com'è, si beccherebbe comunque tutto ciò che scola comunque dai sottovasi. Con la differenza che la questione non esisterebbe. Quelle povere piante hanno bisogno di qualcuno che si occupi di loro e io non ho intenzione di abbandonarle a sé stesse solo perché lei non fa attenzione a dove mette i piedi.
Massimo abbandonò la riunione con i nervi a fior di pelle. Sua moglie lo seguì dimessa, con il viso rosso dalla vergogna.
- Massimo, che diamine! Ma dovevi proprio prendertela con la signora Speranza?
- Scusa, ma perché no? È una maleducata egoista. Per quale motivo dovrei sottostare al suo egoismo e alla sua maleducazione?
- Per quieto vivere, Massimo. Per quieto vivere.
- Per quieto vivere? Per quieto vivere la prossima volta chiamo i vigili e le faccio fare una multa grossa così!
- Illuso... - gli rise in faccia sua moglie: - Ti sei dimenticato che quella signora è la mamma del vicecomandante della municipale? Non daranno mai retta a te per mettersi contro suo figlio!
- Ah, è così?
Il giorno seguente Massimo si recò alla sede locale del partito di maggioranza del suo municipio. Mancava meno di un anno alle elezioni amministrative e l'episodio della sera precedente lo aveva riempito di frustrazione, caricandolo di quella rabbia che lo stava spingendo a candidarsi come assessore alle strade.
In fondo era un professionista molto stimato e relativamente conosciuto. Il funzionario del partito fu ben lieto di tesserare un cittadino esemplare come lui.
Massimo tirò fuori il meglio di sé e l'anno successivo, quando il partito del quale ormai faceva parte vinse come, era prevedibile, le amministrative, lui fu nominato amministratore delle strade.
La signora Speranza, per tutto quel tempo, aveva naturalmente continuato ad annaffiare gli oleandri al bordo della tangenziale con la canna da irrigazione dal terrazzo di casa sua.
Massimo, con la sua nuova autorità di assessore, le mandò i vigili a casa.
La signora Speranza dovette pagare la sua bella multa.
- Come mai sei così di buon umore, caro? - domandò Doriana a suo marito.
- Perché alla fine ho vinto io!
-  E cosa ti riferisci?
Massimo e rispose quasi sdegnoso:
- Alla signora Speranza, ovviamente. Non hai sentito della multa che ha ricevuto?
- Sì, ne parlava stamattina con il vedovo del terzo piano. Perché? Tu che cosa c'entri?
- Che cosa c'entro? Glieli ho mandati io i vigili!
Sua moglie lo osservava interrogativa.
- Così la smetterà di allagare la strada dal terrazzo di casa sua! Si sentiva impunita, al di sopra della legge e dei regolamenti di buon vicinato... e io le ho dimostrato che aveva torto!
Doriana alzò le spalle con indifferenza:
- Se la cosa ti fa stare meglio - disse andandosene a fare una doccia.

***

- Doriana, davvero, non riesco più a comprendere la tua ostinazione.
- Hai poco da capire e ancora meno da arrabbiarti: io non mi sento pronta.
- Non ti senti pronta. Non ti senti pronta a diventare madre a 37 anni.
- Hai riassunto perfettamente. Vuol dire che mi hai capita.
- No che non ho capito. Non ti capisco.
Marito e moglie restarono in silenzio, senza voltare il capo ma pure senza guardarsi, con lo sguardo assente, Massimo proiettato alla ricerca di una risposta, Doriana nell'indifferenza noiosa di chi aspetta che un certo momento passi via e basta.
- Non ti senti pronta per avere un bambino o non vuoi averlo?
- Fa differenza?
- Sì, Doriana. Per me fa differenza.
- Allora scegli tu.
- Scegli tu che cosa?
- Scegli tu quale delle due. Io per ora non voglio pensarci.
Massimo uscì di casa senza salutare.
Il lavoro in comune era diventato noioso. Si era stancato, dopo quattro anni, di svolgere l'ordinaria amministrazione senza poter dire mai la sua. Anzi, a essere onesti la sua poteva dirla. Ma contava quanto il due di coppe quando regna bastoni.
Il sindaco pareva lontano, disinteressato alle idee personali di uno dei suoi assessori più virtuosi. Sapeva che Massimo svolgeva bene il suo lavoro' e tanto gli bastava. Perché risolvere tutti i problemi del Comune, a suo modo di vedere? Perché mai? Su che cosa avrebbe puntato, alle prossime amministrative, se per un caso sfortunoso si fosse davvero impegnato a risolvere tutti i problemi della città? Che cosa avrebbe potuto più promettere in campagna elettorale?
Massimo non era uno stupido: aveva compreso da tempo le regole del gioco.
Semplicemente, da quella mattina quelle regole non gli andarono più a genio.
Quella mattina si ammalò di telefonate: contattò colleghi stufi e colleghi ambiziosi, professionisti affermati come era stato lui fino a qualche anno prima, qualche amico di comprovata fiducia.
Quindi, a ridosso delle prime candidature utili, iscrisse il suo nome. Era in corsa per diventare sindaco. Con il partito che aveva fondato idealmente la mattina che aveva discusso con Doriana.
Inaspettatamente, Massimo vinse le elezioni.

***

Massimo venne eletto sindaco per due mandati consecutivi.
Sul finire del suo decennale incarico aveva bene di che essere soddisfatto. Con le sue sole forze era riuscito a creare un soggetto politico nuovo, vitale e competente. Aveva governato con cognizione e prudenza, compensando la relativa inesperienza iniziale rispetto a chi il politico di professione lo aveva fatto sin da giovanissimo.
Era arrivato il momento di cedere il passo, dopo dieci anni di pubblico incarico.
All'interno del suo partito erano cresciuti dei giovani interessanti e uno in particolare, Gianmatteo, si faceva avanti, ancora tra le righe, per succedergli come prossimo candidato sindaco. Era uno tosto, Gianmatteo: tosto, furbo e dinamico. Fin troppo dinamico, a suo modo di vedere. Di lui sapeva che intratteneva relazioni con i suoi vecchi compagni di partito, del partito con il quale era iniziata la sua avventura come semplice assessore. Dopo un quindicennio nell'ambiente Massimo aveva imparato che le relazioni personali, per chi è del mestiere, non possono non riguardare anche quanto si porta nel lavoro.
Non era che Gianmatteo gli dispiacesse proprio, ma le sue frequentazioni no che non gli andavano giù. Avrebbe preferito, ecco, che come suo delfino venisse indicato un qualche altro, magari più dimesso, più ordinato, meno "esplosivo". Qualcuno di più serio, ecco.
Ci rifletteva spesso. Di tanto in tanto si rispondeva che forse si trattava di una sua fissazione, probabilmente dovuta all'età: oramai era arrivato ai cinquanta anni. Doriana ne aveva 47. Non avevano mai avuto figli. Forse era questo il motivo per cui era diventato così geloso delle sue cose, a tratti così irritabile?
Poteva anche essere. Certo che poteva essere.
Restava il fatto che il suo partito a Gianmatteo davvero non avrebbe voluto cederlo.
Il tempo oramai era giunto al limite. A breve avrebbe dovuto pronunciare il discorso di fine mandato e sciogliere il consiglio comunale.
Dopo le vacanze estive, certo. Dopo le vacanze estive, l'iter sarebbe stato quello per forza di cose. E al diavolo tutto, pure Gianmatteo, che facesse ciò che voleva.
Lui aveva dato.
Anche, e soprattutto, con il suo matrimonio.
Tornando a casa, avrebbe annunciato a Doriana la sua volontà di divorziare. Ci aveva riflettuto a lungo. Per anni. Il momento era arrivato.
Era finalmente certo. Certo che le fatidiche parole non sarebbero mai uscite dalla sua bocca.

***

Al termine delle vacanze Massimo era ancora sposato con Doriana. L'estate era stata tremendamente noiosa. Come sempre.
Si sentiva zeppo fino all'orlo di rancori e di frustrazioni quando giunse alla sala assembleare del Comune per tenere il suo discorso di fine mandato. E per annunciare la candidatura di Gianmatteo come suo successore, come infine era stato deciso.
Continuava a essere contrario in proposito, e come lui anche diversi tra i suoi collaboratori più antichi mostravano diverse perplessità.
Ma una volta avvicinatosi al microfono qualcosa, una molla di sopportazione nascosta e portata alla pressione estrema, scattò dentro di lui.
Dopo avere pronunciato l'ultima parola del suo discorso, inaspettatamente, lasciando gli astanti sbigottiti, annunciò una scissione interna al suo partito.

mercoledì 1 febbraio 2017

Renzi, Giulio Cesare e il dopo referendum

Questo articolo lo scrissi tra il 5 e il 6 dicembre 2016.
Ho provato a proporlo un po' in giro, senza grande successo.
Poi me ne sono dimenticato. Ho lavorato ad altro.
Oggi appare qui per puro sfizio.


Renzi, Giulio Cesare e il dopo referendum

Venerdì 2 dicembre mi sono svegliato con in testa una sorta di parallelo storico-politico, chiaro e nettissimo. Quando mi capitano episodi del genere non posso fare a meno di rivivere quella grandissima scena del Gattopardo in cui Burt Lancaster introduce la sua considerazione politica al padre Pirrone ("Lo sa cosa succede da noi? Niente succede"). Non è un caso forse che, anche nel libro di Tomasi di Lampedusa, il pensiero politico che esce dalle labbra del principe di Salina nasca in un momento casuale di primizia mattutina, mentre questi si sta radendo.
Uno studente di storia e di letteratura quale io sono non può fare a meno di vedere, nella vita pubblica, nei fatti di cronaca di tutti i giorni, la ciclicità degli eventi, le storie che si replicano. E, da qualche giorno a questa parte, personalmente non riesco a non vedere gli ultimi spasmi della repubblica romana, e in particolare la vicenda di Giulio Cesare.
Cesare è un uomo dall'intelligenza politica fuori dal comune, che sa unire abilità tattiche e tempi di manovra con una precisione assoluta. Non a caso arriva alla massima carica di potere con un meccanismo inusuale ma previsto dalle leggi. Non inventa nulla, si può dire: cavalca gli eventi e gli stati d'animo a regola d'arte, procedendo in maniera talvolta evidentemente discutibile ma calcando la linea di una precedente, seppure deprecabile, tradizione. Sfruttando l'incarico proconsolare come nessun altro prima di lui può rimarcare una dignitas originale, cucita su misura per sé, e fare piazza pulita di qualsiasi altro concorrente (esterno come interno alla sua corrente) fino a diventare, a tutti gli effetti, il dominus assoluto della politica romana.
Non trovare delle curiose coincidenze con la rapida ascesa del dimissionario Presidente del Consiglio è per chi scrive impossibile.
Non era impossibile per un politico romano diventare console almeno una volta nella vita (l'incarico era di durata annuale, e perdipiù si esercitava in coppia).
Difficile era, semmai, restare sulla cresta dell'onda, non appiattirsi nei comodi meccanismi clientelari cui l'appartenenza all'aristocrazia senatoria aveva fatto una parassitaria e stagnante abitudine.
Non è impossibile per un politico di professione diventare sindaco della propria città di origine. Difficile può essere, da "semplice" sindaco, diventare in tempi brevissimi segretario del più grande partito nazionale e a furor di popolo capo dell'esecutivo.
Cesare assume l'incarico di Dittatore (con la maiuscola, proprio perché si trattava di una carica prevista dagli ordinamenti repubblicani e non del sostantivo deteriore che si intende oggi) e la prima cosa che fa è perdonare i suoi avversari. Agisce così per tutta una serie di ragioni, non ultima una certa convinzione che la Pietas (altro termine da intendere alla latina, profondissimo e diverso da quello della "pietà" comunemente intesa) appena dimostrata gli farà, e non poco, gioco.
Cesare assume la dittatura, che gli viene consecutivamente rinnovata nel corso degli anni, e senza abolire le magistrature vigenti, ma anzi incrementando in un certo senso il numero dei funzionari dello Stato, avvia un profondo meccanismo di rinnovamento dello stesso. Il progetto di Cesare è chiaro e semplice: egli si è reso conto che l'immobilismo della Repubblica è da imputare principalmente proprio alla classe degli Optimates, dei senatori, che tra le altre cose non è più rappresentativa del corpo societario reale. Quindi decide di ampliarla. Non si tratta ovviamente di un processo democratico in senso moderno; sarebbe pretestuoso crederlo. Si tratta, semmai, di ridistribuire delle competenze, dei carichi di lavoro, delle clientele (che quando sono troppe diventano l'anticamera della corruttibilitá) e pertanto anche dei flussi di denaro. Con l'effetto collaterale di una maggiore apertura della politica nei confronti della società, questo è pur vero.
Naturalmente ai senatori questa ipotesi di rinnovamente non piace nemmeno un po'. Ed è così che si arriva alle Idi di marzo.
Ma ormai il dado è tratto. Alea iacta est.
Cesare è passato e un segno lo ha tracciato. Sperare di tornare indietro, una volta che il meccanismo si è avviato, è impossibile. Quale meccanismo? Quello che porta a un maggiore accentramento del potere, ovvio. Che è, per un insieme di convenzioni e di sensibilità un meccanismo relativamente lento, ma inesorabile.
Negli ultimi anni di vita della repubblica romana gli uffici tradizionali continueranno a essere coperti stabilmente, ma avranno sempre meno vigore. Questo strascico istituzionale permetterà a Marco Antonio di far passare per progetti personali intenzioni e disposizioni già avviate (o comunque già concepite) dallo stesso Cesare.
Non vi sono particolari diversità da quanto è accaduto al governo di Renzi. Il Matteo fiorentino è stato in buona sostanza il primo a proporsi come leader della cosiddetta Terza Repubblica, e si è posto quale leader in un modo sostanzialmente nuovo, molto più "presidenzialista" di quanto nemmeno lo stesso Berlusconi, evidentemente impacciato dai vari vincoli di coalizione tra AN e Lega Nord, fosse mai riuscito a fare.
Matteo Renzi è passato, e con questo non voglio certo dire sia finito.
Intendere un presidente del consiglio "garbato" e in senso largo rispettoso dei confini tra i più diversi ruoli istituzionali non sarà più possibile per un pezzo.
Lo stesso si può dire della mancata riforma istituzionale.
Se ne è parlato talmente tanto che ha finito col depositarsi nel profondo delle coscienze. Pur senza riscuotere il successo che l'esecutivo sperava, è ben stata scritta, tutti ne hanno parlato, molti l'hanno capita (al punto di criticarla e di avversarla).
Il Rubicone è stato attraversato: la storia di Roma ha dimostrato che da quel momento, da quelle prime truppe entrate in armi entro i confini della repubblica, nessun capo ha più potuto fare a meno di governare senza l'ausilio di una legione, pubblica o privata che fosse.
Non credo sia eccessivo prevedere che nessun presidente del consiglio, in futuro, riuscirà a governare senza tentare di essere il più "presidenzialista" possibile. Nessun capo potrà fare a meno di farsi chiamare un po' Cesare.
Adesso ci troviamo nel momento della transizione, al domani delle idi.
La transizione Roma la gestí con un triumvirato.
Marco Antonio, il luogotenente delle guerre galliche, esuberante e caratterialmente sanguigno.
Ottaviano, prodotto speculare del padre adottivo, esatto e contrario, ancora più scaltro e ancora più spregiudicato.
Lepido, il fedele, il protetto, proconsole in Spagna: il terzo incomodo di cui quasi ci si scorda.
Lepido oggi potrebbe essere tranquillamente Bersani, o Speranza, o Cuperlo magari.
Marco Antonio viene certamente dalle fila dei 5 stelle.
Ottaviano? Forse è proprio l'altro Matteo.
In fondo la pax augustea altro non fu che un deserto dopo uno sterminio. Ovvio, dalla pancia del popolo fu digerita tranquillamente dopo circa due generazioni di conflitti intestini. L'ultima guerra intestina la vinse Ottaviano, che non era certo il migliore, moralmente parlando, dei tre (ma è pur vero che scegliere un "migliore", tra i tre, non è impresa da poco).
Dove si colloca Berlusconi in tutto ciò? Provocatoriamente, Berlusconi sarebbe Cicerone: la prima, antesignana, avvisaglia di un cambiamento del corpo politico che non è mai avvenuto. Convinto di poter indirizzare il nuovo giovane leone e condannato a essere contraddetto dai fatti.
Da Cesare, da Ottaviano in poi, la storia ha conosciuto gli imperatori: qualcuno non è stato un male (Traiano, Nerva, Marco Aurelio); molto più spesso non è stato un bene.
... e i cesaricidi? Dopo le idi di marzo se ne è persa la memoria.


mercoledì 26 ottobre 2016

Il gol di Paredes - metafora delle reazioni davanti a un rischio

Ci sono situazioni, all'interno di una partita, momenti, fotogrammi di distaccata verità, che sanno rappresentare poeticamente le difficoltà dell'esistenza.
Il goal di Paredes in Roma-Palermo del 23 ottobre 2016 è uno di questi.
È un goal che arriva su punizione, imprevisto, da una posizione non pericolosa. La parabola che si disegna è a spiovere, indecisa se essere un tiro diretto oppure un cross nell'area piccola, e va a precipitare a poco più di un metro e mezzo dal portiere, a meta strada tra l'estremo difensore e gli attaccanti avversari. È un gesto infido, velenoso, dentro al quale tutto può accadere o smarrirsi velocemente. È un goal che ha la geometria esatta delle fatalità occasionali.
La cronaca è nota: il portiere si getterà nel tentativo di fermare il pallone in fase discendente; questo però troverà una picchiata e un rimbalzo così esatti da toccare il suolo e scavalcare il giocatore coi guantoni durante la fase di uscita. La vita sta tutta lì: se il portiere avesse atteso la sfera di gioco fermo tra i pali sarebbe riuscito a bloccarla con facilità. Teoricamente. A condizione cioè che nessuno degli avversari avesse tentato un inserimento, trovando la marcatura con un tap-in fin troppo naturale. Un rischio quest'ultimo troppo alto. Il portiere non aveva altra scelta che buttarsi. Cerca un tuffo di un metro e mezzo sperando di raggiungere il pallone nel preciso momento dell'impatto con il manto erboso. Una geometria e una tempistica dall'esattezza scientifica.
Il portiere tutto questo lo capisce prima che accada, mentre il pittore del quadro sta giusto pennellando la sua delicata sfumatura parabolica. E tutti noi per un istante gli puntiamo il dito contro, quasi fosse un allocco, per la riuscita apparentemente ridicola di questa rete, per il modo assurdo e derisorio con cui il pallone lo anticipa e gli passa sopra le spalle, sopra le braccia irrimediabilmente tese alla ricerca di una perfezione non raggiunta per un pelo. Ma sbagliamo tutti. Perché quel portiere ha capito, immediatamente, cosa stava per capitare. E ha fatto una scelta, una scelta coraggiosa: tra il restare fermo in attesa del pericolo sperando che per una fortunosa catena di coincidenze esso non si verificasse e il correre un rischio, anticipando il pericolo, sfidandolo a viso aperto gettandoglisi incontro. È un equilibrio sottile, quello in cui si svolge la guerra tra i titani e gli dei, dall'esito ogni volta impronosticabile. Tifare per gli uni o per gli altri è solo una questione di gusto, di contingenze, talvolta di provenienze. Ma è dentro queste storie nelle storie, è dentro questi attimi di verità vissute appena, accarezzate, che sta l'epicentro più autentico dei confronti, l'epicità della competizioni e dell'attesa che le precede.
È per storie opache, da indagare e da scoprire come questa, che lo sport, che questo sport, acquista ragioni intense come nella vita. Perché dentro a istanti del genere è contenuta spesso la storia di una vita.


http://youtu.be/eZufuabkHw4

mercoledì 21 settembre 2016

Ulysses by Alfred Tennyson - Traduzione

Ulysses; Alfred Tennyson 

A poco giova un re senza pensieri 
presso le braci del suo focolare - tra aridi dirupi 
accompagnato da un'anziana sposa. Misuro ed elargisco (nulla più) 
inadeguate leggi a genti isteriche 
che accumulano beni e sonno e cibo - e che non mi conoscono. 
Non posso che rimettermi nel viaggio: voglio bere 
la vita con finanche i sedimenti: tutto il tempo goduto 
è stato immenso, e immensa ogni sofferta: e sia con chi mi ha amato, 
sia da solo; sia sulla riva, sia precipitando 
alla deriva di piovose ninfe* 
che sanno indispettire il fosco mare. E oggi sono un nome 
disperso eternamente in desideri che sanno solo i cuori nella fame. 
È tanto ciò che ho visto e conosciuto: città, uomini, usanze 
 climi, consigli e modi di regnare, 
... E in ultimo, me stesso, e ovunque ho dato prova di valore. 
Ed ho bevuto gioia a ogni battaglia, insieme ad i miei pari, 
lontano sulle piane tintillanti, della ventosa Ilio. 
... Sono una parte di ciò che ho incontrato. 
Eppure ogni esperienza è appena un arco 
nel quale brilla il mondo non viaggiato 
i cui confini fanno per sbiadirsi
... O per schiarirsi se ci andrò vicino. 
È tetro il riposarsi, l'esser giunti 
se poi si arrugginisce, se lo scopo non è splendere ancora, pronto all'uso! 
Che, respirare è forse essere vivi? Godessi di più vite, ad ogni modo 
poco, ben troppo poco mi parrebbe: e di una sola vita so disporre. 
E di una vita a me poco rimane: ma ogni ora 
sottratta ancora a quel silenzio eterno 
è già qualcosa, può recar sorprese: 
Quanto sarebbe vile accumularsi 
e conservarsi - vuoto - in cambio di tre giorni 
se ancora questo spirito ingrigito 
anela le sorprese, e di inseguirle - come stelle cadenti sovrapposte 
oltre il limite estremo del pensiero. 
Questi è mio figlio, il mio stesso Telemaco 
al quale lascio l'Isola e lo scettro 
da me davvero amati - ... Saprà bene 
adempiere i suoi incarichi - prudente e mite, per popoli rudi: 
Saprà addomesticarli al giusto e al buono. 
Conosce il suo sentiero, è irreprensibile 
nei quotidiani impegni, può riuscire 
con guanto di velluto ai suoi uffici, 
ad esser degno di me e dei suoi avi 
quando non ci sarò. Lui ha la sua strada adesso, e io la mia. 
La nave al porto gonfia la sua vela: 
Oscuri e malinconici e ampi mari stanno più in là. I miei marinai 
come anime forgiate nel mio vento, nei fatti e nei pensieri, 
sempre con un cordiale Benvenuto 
hanno accettato il tuono e il caldo sole - e vi hanno opposto 
le menti e i cuori di uomini liberi. Amici, oggi noi tutti siamo vecchi. 
C'è ancora dell'onore tuttavia da soddisfare. 
La morte chiuderà anche il nostro cerchio, 
ma alla chiusura manca qualche cosa, 
Qualcosa che può ancora essere fatto. 
La forza scemerà ma si può ancora 
per noi fare la guerra anche agli Dei. 
La luce un po' più intensa viene sempre 
da sopra i monti, ed essi sono antichi. 
Il giorno è stato lungo e affievolisce: la lenta luna è alta, questo mare 
profondo si lamenta, la sua voce 
emerge ovunque. Avanti amici non è ancora tardi 
per ricercare un mondo un po' più nuovo. 
Voghiamo ben piantati per centrare i solchi rimbombanti delle onde. 
Ad oggi il mio proposito consiste nel navigare oltre il tramonto - dove 
le stelle occidentali fanno il bagno, fin quando morirò. 
Forse gli abissi ci ripuliranno. Può darsi. 
Forse faremo terra alle Isole Felici 
e allora rivedremmo il grande Achille, come lo conoscemmo. 
Sebbene molto è perso, molto rimane. E è vero 
Non siamo più oggi quella forza
che una volta muoveva il cielo e la terra; 
Noi siamo ciò che siamo, 
Quella stessa tempra di cuori eroici 
dal tempo indeboliti e dal destino, 
ma saldi ancora nella volontà 
di lottare e cercare e trovare... E di non cedere. 




*letterale: le Iadi. Si potrebbe leggere anche "Stelle", inteso come "Destino". Qui l'interprete ha preferito intendere le Iadi quali entità personificate onde riflettere il ruolo di Disturbatrci che le creature perlopiù magiche, comunque femminili hanno assunto nelle vicende dell'Ulisse epico. 


Traduzione resa artisticamente secondo il gusto del titolare del blog.

sabato 23 gennaio 2016

Dies Attesæ 2015/2016

Dies attesæ 2015/16 

Sto guidando. Mi rendo conto che nelle ultime ore al volante ho coperto un numero di chilometri che mai avrei immaginato. Si sta facendo tardi; il sole comincia a calare sensibilmente. Schegge dorate se ne stanno sparse su un mare che non vedevo da circa tredici anni. Quando si propone alla vista per la prima volta il mar ligure è qualcosa di veramente spettacolare: si imbocca una galleria appena dopo essere usciti dalla Firenze-Pisa e, tempo un minuto e mezzo di tunnel, ci si ritrova davanti la costa. Forse è tanto bello proprio perché appare così, d'improvviso, dopo un'immersione nella montagna. Dunque cominciano i ponti: come ho potuto dimenticarli! Questi ponti che sono stati, in una certa misura, dei compagni di gioco per dieci anni. 
L'autostrada azzurra, da questo tratto in poi, è addossata alle montagne: alle montagne e alle loro rientranze, ai mille ruscelli. Ogni ruscello, ogni rientranza, è un nome. Tutti. Come ho potuto scordarmi di "Marcaccio", che facevo pesare al mio fratellino come un insulto...! Credo di averlo fatto piangere almeno una volta, grazie a Marcaccio. 
È già tardi, però. Molto più tardi di quanto temessi. Arrivo a La Spezia; i paesi della provincia genovese saranno per un'altra volta. Passo per La Spezia e mi inoltro fino alle Cinque Terre: non le ho mai viste; sono l'unico tratto di Liguria che manca totalmente all'inventario dei miei ricordi. Sono diversi mesi che ho una certa curiosità in proposito e oggi finalmente la soddisfo. 
Tornare in Liguria, anche se per così poco, è un bagno non richiesto (ma scontato) nei ricordi. Antichi, ma anche recenti. La vita non è solo ciò che si è vissuto, diceva Garcia Marquez, e adesso capisco un po' di più come e quanto sia vero. Capisco il come, incredibilmente. Dentro la città, mentre passo accanto all'arsenale militare, mi assale una strana nostalgia. Tento di mandarla giù muovendomi ancora più a ovest. Il mare sta finendo di ingoiarsi il sole. C'è ancora luce: è verde. 
Ricordo un'altra rifrazione molto simile a questa, solo mattutina. Ed estiva. Un caffè, un biscotto, una penna e un foglio di carta. E tante cose da dire: alcune purtroppo da tacere, da lasciare intuire. Le cose essenziali. Parole d'inchiostro comunque si depositarono dentro una busta che forse non è mai stata aperta. Di certo, non è mai stata capita.
D'altronde, noi siamo ciò che non diciamo, avrei finito di capire meno di un mese più tardi. 
Siamo ciò che non diciamo. Le nostre attese. La capacità di tacere e di ponderare, di attendere. Di attenderci. Siamo quel "mentre" intensissimo tra ciò che desideriamo e ciò che ci succede. 
Le cose non vanno quasi mai come le vorremmo: non sarebbe nemmeno giusto aspettarsi diversamente. Si sta come miracoli intempestivi in cerca di una futuribile completezza. Promesse che sperano un giorno di poter essere mantenute. 
Forse è per questo che mi sono messo in viaggio, stamattina. 
Per fare ciò che non ho potuto quando avrei voluto. 
Certo, solo adesso. In ritardo, ovviamente, per tutto. 
O forse, con un poco di fortuna e di fantasia, semplicemente in anticipo rispetto a una seconda occasione.